La vena creativa di De Palma è forse inversamente proporzionale al budget a sua disposizione? Tanto più cresce il secondo, quanto più si prosciuga la prima? Confrontate gli ultimi suoi due lavori, Redacted e Passion, entrambi portati in gara al Lido. Il primo, costato 5 milioni di dollari, partiva dalla guerra in Iraq per riflettere con lucidità sulle conseguenze dell'accesso libero alle immagini e sulla moltiplicazione incontrollota dei punti di vista nelle società digitali (videolog, youtube, etc...). Ambizioso e riuscito, quel film portava a casa il Leone d'Argento della Mostra. Passion, costato 30 milioni e interpretato da attrici come Noomi Rapace e Rachel McAdams (più importanti di nome che di fatto a giudicare dalla loro prova amorfa), ripropone ancora un De Palma teorico, scontando però una difficoltà che Redacted non aveva: la necessità di unire il pensiero a un genere, le idee a una storia.
In altre parole ci si sarebbe aspettato da un thriller chiamato Passion un'attenzione alla suspense pari a quella dedicata alla riflessione sui new media. Per non dire dello sbandierato rapporto lesbo tra le due: molto rumore per nulla. De Palma si limita piuttosto a riciclare vecchie ossessioni metatestuali - sul doppio e il feticismo delle immagini, sui pericoli della videocrazia e sulla scomparsa del reale - senza preoccuparsi di celarle dentro un impianto narrativo adeguato, che sia capace di avvincere il pubblico di per sè, grazie al solo funzionamento del dispositivo drammaturgico. Invece sin dall'inizio è palese che nella lotta di potere tra le due protagoniste - Christine (McAdams) e Isabelle (Rapace), l'una mentore dell'altra - c'è quella tra il doppio e il modello, con questo destinato ogni volta a soccombere (succede a Christine con Isabelle, e a Isabelle con Dani). Lo scontro si concentra all'inizio sul possesso delle medesime cose (lavoro e uomini) per poi diventare - una volta che la partita diventa equilibrata - attrazione/repulsione erotica tra due identici: uno dei due è di troppo. L'utilizzo dello split screen nel finale serve proprio a sottolineare una perfetta specularità, con le due donne diventate ormai l'una immagine dell'altra (e se i connotati fisici dovessero essere d'impiccio per riconoscere la loro perfetta "identità", ecco che una delle due indossa la maschera che raffigura l'altra).
E' solo un esempio di come De Palma proceda senza separare denotazione e connotazione: la metafora è già diventata enunciato. Così facendo lascia che siano le copie, non i modelli, a proliferare nel film; che siano i doppi a sopravvivere agli originali e a vendicarsi.Il messaggio è palese: bisogna fare attenzione ai simulacri che produciamo e al modo in cui li utilizziamo. Chiunque pensi di sfruttarli per il proprio tornaconto muore. A riguardo De Palma individua nella campagna virale dello smartphone messa a punto dalle due protagoniste il peccato originale, l'immagine ridotta a feticcio e mercanzia. Un evento che segnerà indelebilmente il destino dei suoi artefici. Questione non nuova, già trattata in passato dal regista che, non a caso, o si autocita (Sisters, Vestito per uccidere) o cita il suo maestro: Hitchcock.Essere hitchcockiano non vuol dire però essere Hitchcock. E trattare un tema interessante non rende automaticamente interessante il film. De Palma dimentica la grande lezione di Hitch - far pensare sì ma divertendo - e a forza d'inseguire doppi, feticci e simulacri si dimentica di fare autentico il proprio lavoro. Passion è come una copia in effetti: uguale all'originale (agli originali), ma senza cuore e privo di psicologia. Che l'effetto déja-vu sia voluto è possibile (e non solo perché è il remake del francese Crime d'amour di Alain Corneau), pertinente è probabile. Che sia anche efficace invece...