Regista scomodo, dallo stile semplice ma capace di grande scandaglio psicologico, Konchalovsky ha compiuto un percorso umano e professionale encomiabile, la cui portata andrebbe compresa a partire dalla fine. Dal suo ultimo lavoro, Paradise (Leone d'Argento per la regia a Venezia 2016).

Girato in uno splendido b/n e ambientato durante la seconda guerra mondiale, tra la Germania del Terzo Reich e la Francia di Vichy, nel momento in cui la follia del nazismo fa vedere i suoi effetti più nefasti - i rastrellamenti nei ghetti e i campi di sterminio - Paradise ha per protagonisti un poliziotto francese collaborazionista (Philippe Duquesne); una principessa russa arrestata a Parigi per aver cercato di proteggere due bambini ebrei (Julia Vysotskaya); un alto ufficiale delle SS propugnatore della Soluzione finale (Christian Clauß). In qualche modo i loro destini sono interconnessi, non fosse altro perché Konchalovsky li mostra frontalmente, a mezzo busto, come se stessero sostenendo un interrogatorio…

Progetto sfacciato Paradise, che fa piazza pulita di ogni altro film sulla Shoah fatto finora soffermandosi non tanto sul supplizio delle vittime quanto sul loro risarcimento, sul premio che spetta a ciascuno di loro. Sul Bene al di là del Male, sulla bellezza oltre l'orrore: sul cinema, dunque, che mette le cose a posto.

Konchalovsky, o dell'Autore, non vuol tanto scandalizzare, sostituirsi al giudizio divino, ma evocarlo, renderlo hic et nunc comprovabile, riaffermando una volta di più il potere mediatico e "medianico" dell'immaginario, il destino taumaturgico, l'impulso epifanico e rigeneratore dello schermo, vero e proprio grembo da cui può nascere ogni cosa, attraverso cui può prendere corpo ogni fantasma.

Un gesto forte, il gesto di un Maestro, che riscrive il rapporto sempre stretto - e spesso improprio - tra Arte e Potere, a favore della prima.

Un Konchalovsky apparentemente distante dalla sua produzione più recente, dal mood meditativo e nostalgico di quel The Postman's White Nights, Leone d'Argento a Venezia 2014, e inveve sostanzialmente in linea, perfettamente integrato. Un cinema capace di essere politico senza più essere ideologico, etnografico senza dover essere scientifico, un cinema intimo e sommesso ma stavolta declinato al plurale, in quella collettività, quel noi, da cui emerge e ritorna la storia e il senso di ogni individuo.