Non si sa bene se quel "shooting" del titolo sia riferito effettivamente ai fotogrammi di pellicola girati da Wim Wenders o da qualcuno che vorrebbe realmente tirare qualche schioppettata al regista tedesco. La crisi di Wenders è concitata e non c'è autorialità che tenga. Nel raccontare il sottile spaesamento esistenziale del fotografo tedesco Finn, finito con pecore e banchetti d'agrumi tra i vicoli di Palermo a scontare (per davvero o per finta) il suo viaggio purificatore dell'anima, Wenders adopera il peggior menage tra cartolinesco ed intellettualismo spicciolo che non è più per lui, e da tempo, una teorizzazione concettuale di un cinema personale. Per alcuni si chiama manierismo, per altri semplice impossibilità a rinnovare il proprio sguardo pur mantenendone le proprie peculiarità. Il primo passo falsissimo si tocca nell'illustrare una Palermo da cartolina, appunto, dove vengono ritratti, a turno, due teatranti in una sala diroccata; un violoncellista; qualche effetto di miseria per le strade della città. Oltre alle cupole arabeggianti che fanno tanto influsso mediterraneo. Successivamente l'incontro amoroso deve avvenire con una restauratrice di affreschi (una catatonica Giovanna Mezzogiorno) e la simbolizzazione di questo alone malvagio che far star male Finn diventa un belzebù in carne ed ossa (e dissolvenza) dalle sembianze di Dennis Hopper. Qui la vetta del ridicolo viene letteralmente invasa da dialoghi impossibili, svolazzi della macchina da presa fini a se stessi e da una disarmante invenzione di computer grafica che rende gli oggetti attorno a Finn infinitamente più piccoli di lui. Siamo costernati, ma dentro a Palermo Shooting non c'è davvero nulla di rammentabile. A parte una colonna sonora disco-pop da kitsch tedesco che comprende il povero De André.