Ritorno al nido e senso di colpa. Maturità e adolescenza. Solitudine e famiglia. Humour e dramma. Campagna e città.

Andrea Öhman sceglie l’usato sicuro, riprendendo in mano il pendolo che fu anche di Simple Simon (esordio dietro la cinepresa con cui rappresentò il paese nordico agli Oscar 2010) per guardarsi negli occhi, ritrovare il sé adolescente ferito, elaborare i lutti famigliari, cercarne una via di liberazione.

Fulcro emotivo e narrativo di questo topo di campagna e topo di città in Svezia è il caschetto ribelle ed esagitato di Lisa (Karin Franz Körlof). Trentenne creativa, non regista ma fumettista dall’humour facile, satireggia gli altri sue strisce, ma è risucchiata nel vortice di una quotidianità cittadina fatta di impellenze, scadenze, libri da consegnare, ex che la asfissiano sotto mentite spoglie di editori, convegni femministi a cui presenziare.

Va da sé che il richiamo all’ovile (la casa d’infanzia nel bosco) dell’anziano papà la coglie di sorpresa. La madre, prossima settantenne, è sopravvissuta al cancro; è tempo di passaggi di testimone, quindi di emersione del rimosso. Tra lago e pini della brulla Svezia, Lisa, infatti, si ritrova faccia a faccia, dopo anni di ruggini e silenzi, con fratello e sorella. Tra chi ha messo su famiglia, chi solo figli, la fumettista è l’unica a non aver rispettato il mandato genitoriale. Il suo anticonformismo, il rifiuto della maternità, la libertà sessuale, la creatività senza cultura pratica, riemergono a ogni cena che la famiglia trascorre vista lago. A tenerla unità, però, è il senso di colpa, e il lutto per la morte di Arthur, bambino defunto sognando di diventare calciatore. Un fratello che continua a allucinare Lisa ovunque vada.

Öhman riapre l’album di famiglia per fare pace con sé stesso nell’esemplarità sociale di rimpianti e lutti di una trentenne ancora in bilico esistenziale come artistico. A stemperare il calore emotivo della scrittura (firmata dallo stresso regista) ecco getti di umorismo e inserti di animazione che vivificano piante ed animali.

Una cinepresa, insomma, che tra campi lunghi verdeggianti e primissimi piani che cerca, nella sgargiante palette giallo-verde, nella frizzantezza (soprattutto iniziale) di ritmo, un ponte tra cinema popolare e d’autore, tra animazione e realismo.

Diciamo che del ponte rimane l’impalcatura, la struttura, discorsiva più che narrativa, non sta in piedi: Öhman rimane a metà del guado sguazzando in una storia prigioniera delle sue strutture di genere. Di più: tra sentimento agreste e operazione nostalgia (anni Novanta), tra commedia per alleggerire la tragedia, e umorismo che si rovescia in sarcasmo che detona il rimosso, non tutte le recitazioni sono intonate come quella di Peter Haber che convince e intenerisce da boscaiolo patriarca.

Öhman delude puntando sull’accumulo, meglio sull’iterazione dell’identico (le animazioni di alberi, patate e acciughe, le corse della protagonista cuffie nelle orecchie tra i campi, le cene di famiglia).

Questo family movie bizzoso, eccentrico, così, ristagna tra due poli espressivi, e non trova l’autenticità nella programmaticità, universalità nella singolarità, profondità nel macchiettismo, stratificazione nella vis comica, liberazione dal dolore nel dolore.