Dura tre ore e ventotto minuti il capitolo della saga On the Job (il primo film era stato presentato alla Quinzaine di Cannes nel 2013) ma tutto sommato la fatica è minima. Perché Erik Matti, per la prima volta in Concorso a Venezia, ha la mano lesta e scaltra del narratore popolare e riesce a offrire una storia molto legata alla società filippina a un pubblico internazionale.

The Missing 8, sottotitolo del film, allude a otto impiegati di un giornale locale improvvisamente scomparsi. Un giornalista corrotto, detto “lo Zio” in virtù del successo del suo programma radiofonico, decide di indagare per cercare giustizia ma si mette contro quel governo cittadino, da tempo immemore guidato da un sindaco che ambisce a un upgrade politico, di cui è sempre stato fedele sostenitore. La sua indagine si intreccia alla vicenda di un sicario finito in prigione e fatto uscire per commettere degli omicidi.

Questa la vicenda per sommi capi, ispirata a fatti realmente accaduti, ma l’incalzante narrazione di On the Job – The Missing 8 è assai più rapsodica e complicata. Una corale criminale in cui nessuno è innocente ma solo alcuni sono disposti a fare i conti con i rimorsi della coscienza e quel che resta del vivere civilmente, abitata da politici imbullonati alla poltrona che somigliano a boss della malavita, giornalisti asserviti al potere per abitudine e convenienza, detenuti che non mettono in conto l’ipotesi della riabilitazione dietro le sbarre.

Erik Matti non si limita, non ha limiti. Non gli interessa il racconto morale ma il senso del thrilling, orchestrando un’allegoria sulle contraddizioni e sui drammi irrisolti delle Filippine con un lessico capace di dialogare con il resto del mondo. Entrare nelle dinamiche non è facile ma Matti usa come merce di scambio il registro grottesco, l’esagerazione, il kitsch premeditato.

Se le immagini promettono l’adesione al pulp ma si mantengono perfino più sovrabbondanti che sgradevoli (sparatorie e risse sono rutilanti ma, in fin dei conti, meno di quanto ci si potrebbe aspettare, nonostante il machete), la colonna sonora si connette al sentimento pop(olare) mettendo insieme canzoni americane e repertorio locale fino a un’assurda e irresistibile versione di Bella, ciao in filippino.

Senza evitare derive un po’ rozze e un metraggio fin troppo dilatato (potrebbe diventare una serie: tra i produttori c’è anche HBO), Matti contamina dramma civile e sprazzi di comicità, coreografie action e detection paranoica, e tesse un elogio al giornalismo d’inchiesta contro le soverchierie del potere e alla possibilità di redenzione di fronte all’evidenza del sopruso.