L’anima rurale della Francia è sotto assedio. La comunione con la natura, il lavoro nei campi, ormai sullo schermo vengono descritti come una maledizione. Senza andare troppo lontano, lo avevamo visto tre anni fa in Petit Paysan di Hubert Charuel. L’azienda agricola, un’epidemia che infetta gli animali, l’abbandono da parte dello Stato. Allora, come oggi, l’ispirazione arrivava dalla storia dei genitori.

Il regista Edouard Bergeon guarda a suo padre per realizzare Nel nome della terra. Un film che parte dal basso, dalla semina, dall’allevamento. Ma ogni idillio bucolico è spento dall’incedere della disgrazia. I debiti, le giornate interminabili nel segno del sudore, i legami sentimentali che implodono per la fatica di tirare avanti.

Bergeon ha una chiara idea di cinema: ruvida, violenta nei contenuti, un grido nel silenzio dalla parte dei dimenticati. Il suo è un ritratto di solitudine moderna, di una progressiva discesa verso gli inferi. Da regista riflette anche su che cosa significhi essere autori oggi in Europa. Forse non è un caso che il protagonista sia un “cowboy” tornato dalle pianure del Wyoming. Si destruttura il mito americano, i canoni di Hollywood, la soggezione ai modelli d’oltreoceano.

 

Bergeon sceglie la Francia e rivendica la sua indipendenza con la macchina da presa. Poi, attraverso il deperimento dell’uomo comune, ragiona sullo spirito sofferente dell’artista, sulla sua lontananza dal sistema. Chi dovrebbe aiutare sceglie di chiudere gli occhi, di ignorare.

Non si esce quasi mai dal “ranch”, i capannoni diventano una prigione. Anche i colori si fanno sempre più spenti, riflesso di una condizione disperata. Bergeon utilizza i totali per sottolineare la responsabilità che grava sulle spalle del personaggio. Lui, minuscolo, che si trascina, mentre incombe l’immensità del paesaggio. Con la tensione pittorica che richiama i grandi affreschi dell’Ottocento.

In fondo anche Nel nome della terra è nato dall’epica, dai classici come Il gigante, che però sfociano nella tragedia. È l’istantanea di un mondo senza via d’uscita, di uno scontro generazionale senza soluzione, dove gli anziani malmostosi scaricano sui figli il loro male di vivere. Nel nome della terra è straziante nella sua semplicità, militante negli intenti, lucido nei toni. Con un magnifico Guillaume Canet. Plauso alla Movies Inspired che non smette di scovare perle nelle cinematografie oltre i nostri confini.