Micaela Ramazzotti, una madre: uno dei principali esempi di typecasting nel cinema italiano, cioè quel processo attraverso cui un interprete viene fortemente identificato con un personaggio specifico.

La Maria di Naufragi è una nuova tappa di una carriera votata alla riflessione sulla dimensione materna nella società italiana, dall’allegorico La prima cosa bella passando per Anni felici, Più buio di mezzanotte, Il nome del figlio, La pazza gioia, La tenerezza, Una famiglia, Vivere fino al più recente del mazzo, Maledetta primavera.

Tra tutte le attrici della sua generazione, Ramazzotti non è solo quella che dialoga maggiormente con le maestre del passato (Stefania Sandrelli è un riferimento dichiarato), ma anche il corpo attoriale che meglio sa incarnare la complessità di un ruolo sospeso tra la premura e il distacco, la tradizione e l’emancipazione, l’accoglienza e lo smarrimento.

Lo stimolo sta nell’aggiornare una galleria composita, l’insidia nella ripetizione. Guidata da Stefano Chiantini (che il materno l’ha costeggiato sul versante tragico in Isole e su quello umoristico nella serie Una mamma imperfetta), Ramazzotti esplora il dolore perfetto offrendo una performance sospesa tra furore e remissione.

Donna un po’ sbalestrata, Maria ha un marito che ama e due figli da crescere, tra ristrettezze economiche e difficoltà caratteriali. Travolta da una tragedia, deve lottare per sopravvivere. A partire da un titolo che recupera una suggestione ungarettiana, Naufragi mette in campo le battaglie di chi resta, dei superstiti costretti a superare le guerre che devastano l’anima.

Sullo sfondo di una Civitavecchia fredda e luminosa, provincia spettrale in cui i protagonisti si muovono tra le macerie emotive, quasi cercando costantemente qualcosa a cui aggrapparsi per galleggiare, Chiantini costruisce un film in sottrazione che rifugge continuamente l’enfasi e la retorica, trovando soprattutto nella prima parte la quadra per raccontare il disorientamento di chi si schianta contro il dramma, lo sgretolamento dei legami, il peso dell’assenza.

Nella seconda parte, con un nuovo punto di svolta che determina tono e ritmo, il cambio di rotta appare necessario se non funzionale alla storia quanto al contempo anche un po’ troppo schematico: la solitudine e la sorda disperazione di Maria si riflettono in quelle analoghe di Rokia (la non professionista Marguerite Abouet, scrittrice e fumettista ivoriana, conosciuta per i graphic novel della serie Aya).

Iniziato nei primi mesi del 2020, fermato a causa del lockdown e ripreso subito dopo, Naufragi sembra attraversato dalle risonanze di questa lavorazione interrotta da una tragedia collettiva. Senza che fosse in programma, riesce a tradurre la sofferenza della pandemia scandagliando un trauma privato che si fa universale. Essenziale e dolente.