Mai come in questo periodo alla ribalta, il termine “movida” nacque nella Spagna post-franchista per indicare la vitalità sociale e il clima culturale della nuova vita democratica: da allora, per estensione, lo utilizziamo per riferirci alla vita notturna, in particolare giovanile. Nell’opera prima di Alessandro Padovani (classe 1993), presentato fuori concorso ad Alice nella Città, Movida è il nome di una giostra, unica attrazione di un territorio depresso, in progressivo spopolamento: siamo a Feltre, nella provincia di Belluno, zona cara al regista (è di Pedavena), ma è una parte per il tutto, un luogo esemplare, la provincia simbolica.

Ai margini delle metropoli, lontani dallo stile di vita e dalle prospettive delle grandi città, i ragazzi crescono, tra le rovine di quelle che un tempo erano delle case e ora contenitori di fantasie e avventure. I bambini giocano alla guerra, gli adolescenti – che la guerra ce l’hanno dentro – ammazzano il tempo nei parcheggi. All'orizzonte, ereditare senza passione i lavori dei padri. Vorrebbero aprirsi al futuro, ma il bellunese di oggi è un’ennesima testimonianza dell’armonia perduta (per usare un'espressione lacapriana): non c’è dialogo tra la desolazione e le privazioni di una terra rivelatasi matrigna e i sogni e le ambizioni dei suoi figli bloccati in quello spazio.

 

Padovani racconta il mondo dei giovanissimi con lo sguardo dell’insider che da quelle secche è riuscito a emanciparsi: c’è amarezza per le occasioni mancate ma, senza pessimismo né derive nostalgiche, il regista ha l’intelligenza di raccontare quanto la depressione socio-economica non distrugga l’entusiasmo dei ragazzi. È il racconto di un’estate, probabilmente l’ultima dell’età dell’innocenza: la crisi sta portando lontano la famiglia di uno dei protagonisti e, come in ogni coming of age, si tratta di uno dei passaggi determinanti per una persona in fieri.

In poco più di un’ora, Movida restituisce un quotidiano unico nella forma ma in profondità comune a tutti coloro che sono cresciuti in provincia. E lo fa attraverso una regia capace di intercettare l’anima dei luoghi, cogliendo nel frangente di un momento preciso un tempo più ampio e complesso, che accoglie il passato delle vacche grasse e il futuro della decadenza, la spensieratezza del qui e ora e l’incertezza di un domani che potrebbe essere altrove.