Quando ci troviamo di fronte a film che arrivano dalle periferie del cinema, spesso tendiamo a leggerli alla luce delle storie politiche dei paesi d’origine. A volte si pecca di superficialità ma per molti aspetti è un metodo utile per codificare opere che piombano da noi come degli ufo provenienti da chissà dove.

Con il colombiano Monos – Un gioco da ragazzi (rappresentante locale agli Oscar 2020 per il Miglior film straniero) è quasi automatico adottare una chiave di lettura del genere: la guerra civile che ha devastato per anni la nazione funge da spunto, misura, allegoria del terzo film di Alejandro Landes.

 

Nell’interstizio tra l’accordo di pace firmato dal presidente Santos con la FARC e il respingimento popolare dell’intesa via referendum (punto decisivo del patto è che tutti i gruppi armati devono disarmarmi e dirigersi verso le città: una direttiva non del tutto accettata, diciamo), immagina una fuga fuori dal tempo che però si basa su questo tempo.

Un tempo sospeso ma intimamente legato al qui e ora: la Colombia che vuole la pace ma non sa accoglierla, stretta nella morsa di un conflittualità infinita da cui non sa liberarsi, che si fa palinsesto di una favola nera, cupa, violenta. Un romanzo di formazione frammentato e collettivo, che la storia nazionale vive e trascende al contempo, dove il percorso non è solo quello di crescita che riguarda i giovanissimi protagonisti ma in parallelo anche di un popolo avvinto in un pericoloso “gioco da ragazzi”.

Landes ha la sapienza di costruire un grande racconto contemporaneo, che dialoga soprattutto con la sua comunità ferita, utilizzando un paradigma mitico che lo rende un’affascinante e ipnotica reinterpretazione di temi noti. Il signore delle mosche è il riferimento più facile, Apocalypse Now il meno modesto.

I ragazzi di Monos, smarriti nel cuore di tenebra (beh, chiaro, no?) della foresta subtropicale, fanno parte di un esercito clandestino. Avrebbero l’età per vivere un’ultima guerra dei bottoni o per scontrarsi lungo una locale via Pál, ma sono già in missione per conto di una misteriosa Organizzazione che li sorveglia attraverso l’addestratore detto il Messaggero.

 

Devono proteggere una prigioniera, un’americana che chiamano la Dottoressa (sì, sono tutti funzioni che ambiscono al portato iconico) e che, all’improvviso, scappa dal loro controllo: panico. Perché, dei Monos, lei non è solo nemico ma anche figura materna.

Landes parte dal reale e respinge il realismo, lambisce il claustrofobico restando en plein air, costruisce la tensione accumulando angoscia, paranoia, allucinazione. Sull’avamposto della fine di un mondo ipotetico, i ragazzi lottano per permettersi un futuro nel mondo reale. Virtuosismi? Anche. Tre gli accreditati al montaggio: indicativo.

Lo sguardo liquido di Landes è l’accesso per comprendere la confusione di un mondo in cui riesce a farti percepire l’umidità devastante, la mancanza d’aria, il silenzio inquietante. Tutto incredibilmente puntellato dalle musiche di Mica Levi: quasi co-autrice.