Quindici anni fa, The Millionaire di Danny Boyle piombò con il suo exploit di pubblico e premi per dirci come il linguaggio del Duemila avesse definitivamente frullato insieme stilemi provenienti da latitudini e culture diverse in un macro-linguaggio universale in cui è tutto uguale. Le tensioni del Postmoderno anni ’90 per l’abbattimento delle barriere avevano portato a un annullamento delle differenze per cui queste grandi produzioni possono svolgersi in qualsiasi metropoli del mondo ed essere strutturate, coreografate e realizzate sostanzialmente alla stessa maniera: nell’action di Telogu, quello di Hong Kong e quello della Hollywood blockbuster si parla ormai la stessa lingua – è una delle cose che afferma con maggior forza la saga di John Wick, qui esplicitamente tirata in ballo addirittura dai dialoghi.

Il gesto politico di Dev Patel al suo esordio da regista, allora, inizia innanzitutto da qui, proprio da parte dell’attore che del Millionaire di Boyle era protagonista: riportare tutto a casa, con un film che mostra apertamente le locandine dei furibondi titoli d’azione di Tollywood appese ai muri della città mentre vengono usate come poligono di tiro, ha l’ambizione di voler stigmatizzare la politica indiana che strumentalizza il credo spirituale per fini propagandistici, e nel frattempo ha il coraggio di citare scopertamente il cinema di Jean-Claude Van Damme (soprattutto Lionheart, riferimento evidente per i personaggi secondari, l’amico zoppo e la squillo d’alto bordo, per non dire di tutta la sequenza del training nel cortile del Tempio) se non proprio il Tony Jaa del primo Ong Bak.

Patel ha il grande pregio di prendersi sul serio, di non annegare tutto l’apparato nei toni tongue-in-cheek con cui ci siamo abituati a fruire di questi prodotti (si veda anche l’ultimo Doug Liman di Roadhouse, di cui Monkey Man è sostanzialmente la versione antagonista “dal basso”), ma di concedersi qualche tocco ironico giusto nella maniera con cui i ritornelli di alcune celebri hit pop accompagnano a tutto volume i combattimenti e gli stunt.

Il suo Uomo Scimmia ha le visioni che lo riportano alla leggenda della divinità induista di Hanu-man, al suo fianco nella battaglia contro il capo della polizia corrotta e contro il guru che aspira al controllo del Paese fingendosi un santone mistico c’è un esercito di diseredati e hijras, la casta transessuale indiana: Monkey Man inizia come fosse il sequel di The Millionaire, tutto delinquentelli di strada che corrono tra i marciapiedi e le bancarelle dei mercati affollatissimi; poi imprime una prima svolta inaspettata con il primo, ultraviolento scontro nel bagno del club tra l’eroe e il poliziotto cattivo.

Da lì in poi i toni si fanno sempre più dark e stilizzati, come si conviene ad un cinecomic (seppur senza fonte fumettistica “ufficiale”) della nostra epoca: sarà per questo che il progetto è piaciuto così tanto a Jordan Peele, da volerlo produrre. La scimmia Gordy di Nope è diventata un dio, ed è ancora affamato di vendetta…