La storia più presunta che vera del primo artista nero di Francia, Rafael Padilla, salito alla ribalta nella Parigi di inizio Novecento nei panni di un clown chiamato Mister Chocolat.

Finito nel dimenticatoio con la stessa velocità con cui si era fatto conoscere in tutta la Francia, il nome di Rafael Padilla è tornato di moda grazie a uno storico transalpino, Gérard Noirel, da sempre interessato alla vicende dell'immigrazione nel suo paese. Basandosi sugli articoli di giornale di allora, Noirel è riuscito a ricostruire la storia dell'artista e del suo grande successo in coppia con Footit, il clown bianco, raccontandola nel libro Chocolat clown nègre, poi diventato uno spettacolo teatrale di Marcel Bozonnet e infine film diretto da Roschdy Zem, che in Italia conosciamo soprattutto per la sua carriera di attore (ultimamente lo abbiamo visto anche in Alaska di Cupellini).

La versione cinematografica è una classica storia di ascesa e caduta parecchio romanzata, perché al di là del personaggio che riempiva i circhi e si guadagnava spazio sui giornali, dell'uomo e della sua vita si sa poco. Pare in effetti che avesse il vizio del gioco, che bevesse e fosse un dongiovanni, tutte cose che fortunatamente il film non gli risparmia. Ma il pericolo santino ritorna dalle varie finestre che Eric e Nicolas Altmayer aprono nella sceneggiatura,  "invenzioni" che finiscono per conferire artatamente al personaggio una veste moderna.

Ad esempio non è vero che era stato arrestato perché trovato senza documenti e seviziato in carcere perché nero. Non è vero l'incontro con un intellettuale haitiano che gli avrebbe aperto gli occhi sulla situazione da essere umano di serie B. Non è vero nemmeno che aveva mollato circo e fortune per il teatro perché schifato del razzismo della società parigina, quella che rideva di lui perché era un nero che faceva il nero che prendeva calci e schiaffi da un bianco. E quando aveva optato di dedicarsi al teatro non scelse, né mai gli venne in mente, di interpretare, primo attore di colore nella storia, l'Otello di Shakespeare.

Sono tutte "fantasie" biografiche che finiscono per mascherare le sfaccettature del personaggio e tradirne la leggerezza (costringendo anche Omar Sy a snaturare se stesso, com'è evidente nella seconda parte), facendone bandiera di altre battaglie. Nessuno nega che nella società di allora, persino in quella più illuminata di Francia, serpeggiasse il razzismo, ma i tempi erano quelli che erano e il fatto che un uomo di colore potesse comunque permettersi un successo e una ricchezza simili dovrebbe in parte disinnescare quel sottotesto razziale che invece gli sceneggiatori hanno voluto sottolineare a scapito di altri.

La storia di Mister Chocolat non è quella della Venus Noire, e lo sguardo di Roschdy Zem non ha l'ambiguità di quello di Kechiche. Eppure c'erano altre possibilità da esplorare, piste da seguire con coraggio, come il sospetto di un'attrazione omo-erotica nel rapporto tra Footit e Padilla (rispettivamente il dominante e il dominato), accennato e subito dopo dimenticato per non disturbare troppo lo spettatore.

Se la sceneggiatura è di manica larga la regia di Zem accondiscende, piatta e lineare, improntata a un'ansia didascalica, al mondo - ecco il paradosso - del tutto bianco o tutto nero.

Se il film non si ammazza del tutto lo deve, oltre agli attori (ottimo James Thierrée nel ruolo di Footit), al milieu: la Parigi della Bella Epoque con i suoi colori, i suoi rituali e i suoi sordidi caffé, e le quinte dell'arte circense, non diverse da quelle teatrali.

Peccato anche qui che Zem & Co. li concepiscano come sfondo per una comoda lavata di coscienza collettiva.