Gyeongsang del nord, Corea centrale. 1988. L’introverso Jun-gyeong è un prodigio in matematica e in astronomia. Così mette il suo genio al servizio dei compaesani: il suo villaggio, infatti, incastonato tra monti e colline, è attraversato da una ferrovia ma non ha ancora una stazione. Per rincasare dalla città giovani e anziani sono costretti, così, ad attraversare prima una galleria e poi un vertiginoso ponte sospeso sul fiume. Il ragazzo, orfano di madre, ignorato dal padre ferroviere, ma con un legame solido con la sorella, sa bene cosa significa valicare un ponte con un treno che vi sfreccia a duecento all’ora. Perciò, a furia di equazioni, inventa tutti gli stratagemmi possibili per un passaggio in sicurezza. Ma la matematica non basta: arrivato al liceo in città, prende carta e penna per tempestare di lettere il Presidente della Corea. La richiesta è sempre la stessa: far costruire la stazione. Data (anche) la grafia discutibile, però, cadono tutte inascoltate, fin quando incontra Ra-hee, spigliata e altolocata compagna di scuola con una cotta per lui.

Opera prima di Jang Hoon Lee ispirata a eventi reali, Miracle porta a casa la ventiquattresima edizione del Far East Film Festival intrecciando con leggiadria il fondo da favola moderna con una girandola variopinta di generi e registri. Il regista coreano si barcamena tra il comico e il tragico, tra il thriller e il melò, a volte con disinvoltura, altre con prevedibilità, altre ancora con (forse) troppa asciuttezza; probabilmente non sa ancora gestire la suspense, ma riesce a volteggiare con grazia tra il dramma familiare (a tinte psicologiche), l’elaborazione del lutto e il romanzo di formazione, spingendo ora in primo piano, ora sullo sfondo la graziosa storia d’amore adolescenziale.

Il film, però, tanto lieve quanto smanioso di percorrere più sentieri, carbura con lentezza: a volte ristagna in dialoghi ingolfati, altre pare timoroso di imboccare la strada segnata sin dalla prima scena. Ma mutando e cercando unità, conserva la veste briosa e garbatamente umoristica, anche quando, nella seconda parte, capovolge i toni (più lacrime che sorrisi) e la fotografia che si fa brunita e luttuosa, archiviando la prima metà, pennellata di sgargianti gialli e azzurri.

Storia edificante sullo sfondo di una Corea del Sud rurale in transito verso la modernità metropolitana (a bordo di quello stesso treno che aveva iniziato la storia del cinema), nonostante l’impianto a tratti caotico e non sempre nitido, la sceneggiatura (dello stesso regista) evita le figurine e riesce a scolpire personaggi vibranti, tutti fortemente emotivi, mai macchiettistici, sospesi tra il dolore e la necessità di relazione. 

Film di passaggio, dunque, tra due mondi che conquista alla distanza: la linea favolistica in fondo rimane solida, aggrappata com’è al percorso emotivo di Jun-gyeong, sospeso tra la città e il villaggio, tra la famiglia e il primo amore, tra il senso di colpa e il desiderio di superarlo, tra il villaggio e la NASA.