La parola inglese 'mob' deriva dal latino 'mobile vulgus' ovvero il movimento della plebaglia, della folla tumultuante. Il 'mobbing' dovrebbe quindi indicare, in tono dispregiativo, l'attività di questa moltitudine disordinata di corpi. Se però pensassimo a quelli che oggi vengono definiti flash-mob, cioè a quegli improvvisi incontri/scontri en plein air di gruppi di persone che segretamente hanno organizzato l'evento, potremmo finire fuori strada. Il mobbing in questione, messo in evidenza da Francesca Comencini in Mi piace lavorare, è la pressione psicologica che viene fatta in molti luoghi di lavoro verso dipendenti indesiderati. Le forme con cui si manifesta sono: incarichi dequalificanti, diffusione di maldicenze, emarginazione del singolo dal gruppo, fino ad arrivare a veri e propri sabotaggi sul lavoro. Il fenomeno oramai persiste da tempo, è stato monitorato e con molta lentezza sono stati presi provvedimenti legislativi per arginarlo, anche se il problema di coloro che il mobbing l'hanno subito (soprattutto donne) permane: fortissime crisi depressive ed esaurimenti nervosi che hanno già portato a pre-pensionamenti o addirittura a ricoveri in cliniche psichiatriche. Per un argomento così delicato e vasto ed eterogeneo, un ipotetico approccio cinematografico doveva essere attento e ben modulato nei toni, cioè senza far trasparire retorica a buon mercato o insignificanti eccessi ideologico-politici che avrebbero finito per non illustrare oggettivamente il problema. La Comencini sceglie così la via dell'apologo irreale, della condensazione e distillazione della casistica mobbing applicata al corpo indebolito, al volto emaciato di Anna (una Nicoletta Braschi che lontana dal marito dà spesso prova di buone interpretazioni). Segretaria di terzo livello, una bambina a carico, un padre all'ospizio, la vicenda di Anna, che dopo anni di duro e serio lavoro viene obbligata a registrare l'afflusso dei colleghi alla macchina fotocopiatrice, è paradigmatica di una situazione di perdita di dignità, di un'immersione in un infinito calvario psico-fisico che porta alla lenta e inesorabile autodistruzione. Stilisticamente un po' approssimativo, ma concettualmente esplicito, Mi piace lavorare si compone di dissolvenze e scarti narrativi, precisi e cupi tasselli di un mosaico che porta diretti all'indignazione. Se, infine, focalizzassimo lo sguardo sull'impossibilità iniziale di Anna (senza mobbing, per intenderci) di arrivare con lo stipendio a fine mese, di avere uno spazio per la sua vita privata, di uscire con le amiche, di dedicarsi a sua figlia, potremmo iniziare la stesura di un altro script dai contenuti sociali fortemente attuali'