Chissà perché quando pensiamo ai grandi registi italiani ci dimentichiamo sempre di Enzo d’Alò, un signore che dalla fine del secolo scorso si ostina a presidiare un settore che da queste parti è praticamente simile a una riserva (il lungometraggio d’animazione), convinto che il racconto per immagini debba essere anzitutto universale. Il che significa rivolgersi ai bambini così come agli adulti, misurando la narrazione all’altezza dello sguardo puro dei primi e scavando nelle zone più profonde dei secondi.

All’origine di Mary e lo spirito di mezzanotte, settimo film del regista, c’è un romanzo di Roddy Doyle, La gita di mezzanotte (traduzione dell’originale e più allusivo A greyhound of a girl, cioè Un levriero di una ragazza), con protagonista un’undicenne piuttosto schietta, a tratti quasi insolente, che sogna di entrare in una scuola di cucina malgrado le perplessità della mamma. A sostenerla e incoraggiarla è la vispa e diretta nonna, che le dona un libro di ricette di famiglia. Quando l’anziana finisce in ospedale per un malore improvviso, la nipotina decide comunque di cucinarle qualcosa: ad aiutarla è Tansey, una misteriosa ragazza dall’eloquio forbito e l’abbigliamento antico, apparsa vicino casa e che sembra conoscere molto bene la nonna.

Mary e lo Spirito di Mezzanotte
Mary e lo Spirito di Mezzanotte

Mary e lo Spirito di Mezzanotte

Annunciato da un volo di gabbiani dalla funzione molteplice (il disegno che si trasforma in animazione, il verso simile a quello delle cornamuse locali, il richiamo al più iconico dei film di d’Alò, La gabbianella e il gatto), Mary e lo spirito di mezzanotte dichiara subito un legame emotivo con lo spazio del racconto, un’Irlanda quieta dai colori squillanti dove un passaggio di capre può bloccare il transito delle auto e un bosco immerso nella città può accogliere presenze fantasmatiche. Non è la fiera degli stereotipi come di primo acchito può sembrare, ma un processo di trasfigurazione veicolata dal fiabesco, tant’è che in quadri molto curati spuntano elementi più “realisti” e meno invitanti come i piatti precotti, quasi a sottolineare lo scarto dell’immaginazione rispetto alle secche realiste.

Uno spazio che è il film stesso, dove i cani – al di là del titolo originale, potremmo ribattezzarlo “il potere dei cani”… – sono ora spettatori e ora testimoni di un percorso di crescita nel quale c’entrano anche loro. d’Alò (che ha scritto anche la sceneggiatura con Dave Ingham) si mette sulla lunghezza dello sguardo di Mary, dando voce al suo desiderio di vita e mettendosi accanto alla cognizione del dolore. Ciò che rende davvero emozionante il film, una specie di Coco irlandese, sta nella capacità di affrontare temi che intercettano le paure dei bambini e sondano le malinconie degli adulti, all’interno di una storia che mette al centro la dimensione matrilineare della famiglia (i maschi sono laterali benché simpatici, dal padre bonario al medico impacciato).

Sono tanti e profondi, ben intessuti senza che cannibalizzino la narrazione: il valore della testimonianza dei nonni e delle nonne (qui abbiamo una figura complice perché ironica e autorevole nella sua dolcezza, consapevole che il tempo rimasto è poco quindi prezioso), la consegna di un messaggio tramite atti concreti (la cucina è una metafora), la fiducia nel sogno (la determinazione della bambina è ammirevole), la necessità di reinventare i rapporti quando le circostanze lo impongono (c’è anche un’amichetta che si trasferisce in Inghilterra), il bisogno di fare i conti col passato per perdonarsi e andare avanti (il disvelamento del trauma infantile è struggente), la centralità della famiglia come luogo di crescita e realizzazione (l’evoluzione del legame tra Mary e sua madre).

Mary e lo Spirito di Mezzanotte
Mary e lo Spirito di Mezzanotte

Mary e lo Spirito di Mezzanotte

E d’Alò non rinuncia a esplorare le frontiere dell’animazione, un modo per dare forza e complessità al film, approfittando dei sogni (e degli incubi) di nonna e nipote per evocare i grovigli di Peter De Sève e le xilografie di Regina Pessoa. Al contempo conferma l’attenzione alla musica, richiamando David Rhodes (sodale di Peter Gabriel, già con il regista ne La gabbianella e il gatto) per una colonna sonora che mescola i suoni elettrici con quelli acustici, ispirata alla tradizione locale (cornamuse, arpe, voci melismatiche) ma connessa con il presente (anche se le canzoni interpretate da Matilda De Angelis non sono indimenticabili).

Candidato all’European Film Award per il miglior film d’animazione e premiato al 40° Chicago International Children’s Film Festival, è un film straordinario, potente nella sua gentilezza, commovente come sa esserlo una storia che celebra la memoria e le radici per declinarsi al futuro: quintessenza del racconto di formazione. Doppiaggio fatto come si deve: la nonna ha la voce della decana Maria Pia Di Meo, Mary quella della giovanissima Charlotte Infussi D’Amico, che ha vinto il provino senza rivelare al regista di essere la figlia di Domitilla D’Amico, che venticinque anni fa diede la voce alla Gabbianella. Un cerchio che si chiude.