È una vita talmente importante, perfino leggendaria se il termine non fosse così retorico, quella di Marie Curie nata Maria Salomea Skłodowska, che da almeno settant’anni affascina il cinema (e poi la televisione). Chiaramente, verrebbe da dire, tale è il portato iconico della chimica e fisica polacca naturalizzata francese, prima persona a ricevere due Nobel.

Dal classicone Madame Curie all’imminente Radioactive passando per alcune miniserie televisive, la biografia dialoga con il presente ora per omaggiare una figura di frontiera in un mondo – quello scientifico – dominato dagli uomini ora per testimoniarne la coraggiosa modernità.

Va da sé che, al di là della restituzione didascalica degli eventi, la vita di Marie Curie può essere letta da diverse angolazioni. Marie Noëlle sceglie, sin dall’incipit, di sottolineare le due dimensioni della sua eroina: mentre osserva una provetta alla luce del sole, cede perché incinta. Dalla provetta al pancione non c’è scarto, è tutto fluido. E (forse) il motivo sta pure nel fatto che suo marito Pierre è anche la persona con cui lavora. Insieme, nel 1903, vengono insigniti del Nobel per la fisica grazie alla scoperta della radioattività.

Marie Curie
Marie Curie
Marie Curie

Alla morte di Pierre, pur straziata dal dolore, combatte per non farsi mettere ai margini della comunità scientifica. “Ho bisogno di un laboratorio! Vi sto chiedendo un lavoro, non il titolo”, dice a chi ne minimizza le competenze e il talento. Lottando con le armi delle sue scoperte, Marie rifiuta la riduzione a “illustre vedova” priva dei titoli necessari per rivendicare spazi e meriti.

La prospettiva di Noëlle, che riflette sull’emancipata e faticosa scelta di conciliare lavoro e privato, si concentra sul nuovo amore di Marie, il matematico Paul Langevin, sposato con prole. Lo scandaloso love affair scatena una campagna contro la scienziata. E se la stampa decide di additarla come “adultera ebrea”, la moglie di Langevin le ricorda che “anche vestita di seta resti sempre un topo da laboratorio”. L’eco è così forte che a Stoccolma ci pensano un po’ prima di assegnarle l’incontestabile secondo riconoscimento, questa volta per la chimica.

Coproduzione tra Francia, Germania e Polonia, uscita nei paesi d’origine tra il 2016 e il 2018 e solo oggi distribuita in Italia, Marie Curie è in linea con la generale tendenza contemporanea del biopic: isolare un periodo specifico per raccontare un’intera vita.

In questo caso sono i sei anni più dirompenti di Curie, unica donna in scena che afferma quell’indipendenza e quell’autonomia di pensiero che le altre non sanno affermare. Eccezion fatta per la figlia di Marie e Pierre che, come i genitori, vinse anche lei il Nobel insieme al marito. E come la mamma morì per le conseguenze dell’esposizione alle radiazioni.

Marie Curie
Marie Curie
Marie Curie

A mancare nel film di Noëlle è un po’ di mordente nel descrivere il contesto storico. Confezionato con eleganza, certo, ma si corre il rischio di limitarsi al “bella la fotografia” (dovuta a Michal Englert). Lo stesso scandalo, per esempio, ha tutto un potenziale sull’eterno antisemitismo europeo che s’incrocia con la misoginia e la mentalità patriarcale che è un peccato non veder espresso completamente.

L’effetto bignamino è dietro l’angolo, ma per fortuna aggiunge e trasmette qualcosa per l’approccio con cui tratta la protagonista. La interpreta con passione Karolina Gruszka, brava nel conferirle tridimensionalità.