C’è forse del merito nel riuscire a scontentare tutti, il nostro limite però non lo vede. Non che si dovesse per forza far passare il prurito a mestatori di scandali e morbosi da feuilleton, come una certa iconografia maliziosa poteva lasciar presagire, e nemmeno assecondare i parametri di spiritualità che finiscono sempre per misurare i paratesti evangelici (colpa anche di un riflesso fesso del marketing).

Non c’è ultima tentazione che tenga, né Vangelo come Dio comanda. Di fronte alla Maria Maddalena hollywoodiana non regge neppure il fronte femminista, per il peccato originale della Weinstein Company, rimasto marchio distributivo USA (motivo per cui il film negli Stati Uniti è stato rinviato sine die). Un pasticcio, insomma.

Per il quale ci si è avvalsi di ben due sceneggiatrici donna – una, Helen Edmundson, specializzata finora nell’adattamento on stage dei classici della letteratura e l’altra, Philippa Goslett, al terzo copione big screen dopo un’insulsa biografia di Dalì e un adattamento molto queer de La ragazza del punk innamorato di Gaiman – e di un regista uomo, Garth Davis (quello dello stucchevole Lion). Nessun consulente teologico e si vede.

Il film è un compendio di strafalcioni storici, miscugli religiosi, grossolane licenze evangeliche. Smaccatamente apocrifo, un po’ vangelo di Maria e un po’ di Filippo, banalmente rosa, progettualmente contorto, più offensivo che provocatorio, inoffensivo più che altro.

Rooney Mara è meglio della Cucinotta, ma la Maddalena bernabeiana serbava un po’ di tradizione nel cuore che a questa manca. Là la convertita, qua la peccatrice sparisce, la Grazia è già acquisita, Cristo utile ma non necessario. D’altronde Joaquin Phoenix opta per una performance sciamanica e lunatica, inopinatamente distante tanto dal Gesù dei credenti che da quello spettacolare. Un Cristo santone.

Per il quale la Maddalena non sente né attrazione né conflitto, curiosità piuttosto. Lo guarda ma non lo vede. Che è un po’ quello che si sperimenta in poltrona. Questa Maria Maddalena inizia come veggente – sente le cose prima che avvengono - prosegue come una Olympe de Gouges coi sandali e finisce per essere la testimone di eventi soprannaturali (tra cui ben due resurrezioni, quella di Lazzaro e quella di Gesù stesso).

Il femminile che incarna, gentile concessione al femminismo di ritorno, è costruito in contrapposizione ai fratelli di sangue prima e a quelli di setta poi. Pietro, incomprensibilmente nero come Chiwetel Ejiofor, ne esce malconcio, persino barbino: un prodotto retrogrado del patriarcato, meschinamente geloso dei nuovi favori accordati alla donna dal Rabbi.

S’innesta una linea interpretativa che più che fare capo a Dan Brown sembra allinearsi con l’altro Brown, Raymond, e agli studi gnostici sull’identificazione giovannea della Maddalena nell’amato discepolo. Pietro è la Chiesa, vero obiettivo polemico del film. Più indulgenza viene mostrata nei confronti di Giuda, che tradisce il Figlio dell’Uomo per psicologica fragilità.

Più la narrazione prosegue e più si smarrisce il motivo socio-politico dell’emancipazione femminile. Come se tutto il film venisse inghiottito nell’estasi catatonica di Phoenix. C’è ancora il tempo per una bella sequenza, in Samaria, tra moribondi. Lì misericordia e femminilità felicemente si incontrano e ad emergere, accanto al profilo istituzionale pietrino, è la natura materna del cristianesimo.

Un lampo di bellezza nel nulla. Se teologicamente assistiamo a un’elusione del peccato e a un’elisione del Padre (mai nominato: ci si riferisce sempre a Dio e a un ineffabile Regno), dal punto di vista strettamente cinematografico al film sfugge del tutto il contesto, inteso sia come credibile sfondo storico della vicenda sia come insieme di relazioni intessute dai personaggi.

Manca la comunità, manca la società del tempo, manca il quid delle cose vive, la partecipazione e l’empatia. Indeciso sul registro, indefinitamente elegante, sovrastato dallo scenario mozzafiato dei Sassi, Maria Maddalena ricalca una certa idea di kolossal religioso con l’ambizione della novità e dell’invettiva. Non è necessariamente brutto, ma futile sì. E questa non è una buona Novella: non lo è per la Chiesa e neppure per lo spettatore.