Interdit aux chiens et aux italiens, cioè “vietato ai cani e agli italiani”: così si leggeva, in un’epoca neanche troppo lontana, all’ingresso dei locali pubblici e così recita il titolo originale del film di Alain Ughetto, parco autore del cinema d’animazione francese (due cortometraggi negli anni Ottanta, due lunghi nell’ultimo decennio) il cui cognome dichiara chiare origini italiane. Manodopera, il titolo scelto dalla distribuzione italiana, è meno “urticante” ma, a una seconda lettura, ha un impatto addirittura più subdolo: gli emigrati italiano servono perché forza lavoro, si offrono come ingranaggi dell’industria in cambio di una vita decente.

Il côté è autobiografico, nella misura in cui si racconta l’epopea degli Ughetto (Luigi e Cesira, i capifamiglia, sono i nonni dell’autore), piemontesi che ai primi del Novecento sconfinano al di là delle Alpi per cercare fortuna. La misura è nel dialogo a distanza tra il settantenne di oggi (Ughetto) e la nonna di ieri (la voce originale è di Ariane Ascaride, una di quelle attrici che per statuto sa trasmettere impegno emotivo e coscienza civile) restituisce la consapevolezza che una parte sta a rappresentare il tutto, con il passato che si specchia nel presente (e del futuro). L’Italia – e l’italofobia – è cartina di tornasole: le migrazioni economiche ci saranno sempre, cambiano solo le rotte, così come quelle legate alle condizioni politiche in patria, poiché l’autore inquadra la scelta di vita anche al crocevia dell’ascesa fascista.

Manodopera
Manodopera

Manodopera

Nell’arco di poco più di un’ora, Manodopera accoglie un mondo in stop motion, con pupazzi in plastilina che non parlano se non attraverso gli occhi, affidandovi quello stupore e quel dolore delegati alle voci di Ughetto e Ascaride. La dimensione biografica è evidente anche in ciò che non c’è, silenzi in primis, con la memoria a fondamento dell’atto d’amore, dove la storia personale e collettiva si esprime soprattutto nella dedizione dimostrata dall’autore (quasi nove anni di lavoro) nel creare un immaginario plastico, umano, originale (i broccoli fungono da alberi, per esempio).

Un cinema che vuole imporsi antico nel contemporaneo, che nella restituzione poetica non elude l’elemento del reale, l’irruzione dell’insolito, l’incanto del gesto. Forse il metraggio (comunque breve) eccede rispetto alla tenuta narrativa, perché Ughetto non sempre riesce a far quadrare la dolcezza e l’angoscia, la voglia di tenerezza e l’evidenza del vuoto (le musiche di Nicola Piovani sono una garanzia in questo senso), tra la suggestione della meraviglia data dall’artigianato e una certa indecisione nel tono. Certo, i limiti non mancano ma l’esperienza è comunque singolare. Miglior film d’animazione agli European Film Awards 2022.