Istrionico e luciferino, Andrew Garfield non era così bravo dai tempi di The Social Network, un film che in un certo senso è indispensabile per capire Mainstream. Se quel capolavoro metteva in scena la nascita e la costruzione di un sistema destinato a determinare la nostra vita, il secondo lungometraggio di Gia Coppola ne racconta l’incidenza quotidiana di quell'immaginario da esso derivato.

Dall’utente chiamato a connettersi col prossimo per sentirsi parte di qualcosa e evitare lo spettro della solitudine, al coro di solisti che mediano i rispettivi isolamenti all’interno di un mondo – virtuale ma anche no – votato alla religione dell’apparenza.

L’universo dei social media fondati sull’immagine e sulla sua manipolazione visiva (Instagram, Snapchat, TikTok) è al centro di Mainstream, che sin dal titolo mette in chiaro quanto, al netto della forma e dei formati, la storia raccontata sia antica come il mondo.

Scegliendo “mainstream” come titolo, infatti, Coppola indica due strade: da una parte, sottolinea quanto il comportamento degli utenti di questi social media sia legato a esigenze di auto-rappresentazione del tutto omologate e omologanti; dall’altra, dichiara l’adesione a un modello narrativo tradizionale, qualcosa di convenzionale, comune, dominante.

Di diverso rispetto alla norma ci sono le emoji che invadono lo schermo, la resa grafica dei post, un’abbondanza di sticker ed effetti. Ma la ciccia, insomma, è roba già vista: ascesa (e declino) di un personaggio spuntato dal nulla – appare travestito da animale, dice di chiamarsi Link, si ribattezza No-One-Special: beh, tutto chiaro? – che irrompe nel mondo dello spettacolo (in questo caso dei social ma, ecco, è un dettaglio) portando scompiglio nelle vite degli altri.

 

Il punto di vista è quello di una ragazza (Maya Hawke, limpida), barista frustrata che si scopre novella pigmalione ma soprattutto disperatamente innamorata dell'eccentrica star dal passato misterioso. Arrivano sul tetto della celebrità insieme, lei dietro le quinte a scrivergli i testi contro la vanità delle social star e l’ottusità dei followers e lui sul palco a dispensare moniti contro la società dell’apparire e i suoi adepti.

Un po’ moraleggiante, questo sì, ma ha una ferocia piuttosto efficace nel raccontare narcisismo e insicurezze di una generazione consapevolmente alienata nella sua costante autobiografia social.