Già della prima inquadratura, quasi brutale, si capisce che la protagonista dell'opera prima di Cyril Mennegun, in concorso alla Settimana della Critica, non ha nulla da perdere. Louise Wimmer  fa le pulizie a domicilio, si lava nei bagni pubblici, si veste e dorme nella macchina, l'ultima proprietà che le è rimasta. La sua storia è svelata poco alla volta, immagine dopo immagine. Una figlia che compare per pochi minuti, un ex marito che lascia i suoi mobili a marcire sotto un telo di plastica. Una vita miserevole, fatta di giornate tutte uguali, di un passato intuibile dagli oggetti simbolo di un'agiatezza scomparsa per sempre, che Louise porta al banco dei pegni: un servizio di posate d'argento, un foulard di seta, pentole nuovo di zecca. Quelle poche cose rimaste da cui stenta a separarsi, anzi custodisce gelosamente. Fin qui, niente di nuovo, Louise fa parte di quell'esercito destinato ogni giorno ad ingrandirsi, di persone travolte dalla crisi economica globale. Lo scarto invece è nel personaggio, interpretato con grande efficacia da Anne Benoit, che non solo non induce compassione ma per l'intera durata del film mantiene un distacco, misto a superiorità nei confronti di ogni persona che incontra e cerca di aiutarla.
Come l'uomo che frequenta, un amante affettuoso, tenuto a distanza, relegato in un rapporto occasionale. L'orgoglio le impedisce qualsiasi apertura emotiva, meglio mangiare i resti lasciati dagli sconosciuti nei fast food, che chiedere o accettare la beneficenza degli amici. Eppure nella risalita, seppure lenta e faticosa, è impossibile non tifare per questa donna aspra e solitaria, indurita dalle difficoltà e usurata dal tempo che passa. Il regista Mennegun ha al suo attivo due corti Tahar l'étudiant  e Le journal de Dominique, entrambi lavori originali (il primo addirittura rivelatore: un giovane universitario che voleva fare l'attore e pochi anni dopo è stato scelto da Audiard per Il profeta). Altrettanto notevole è l'esordio nel lungometraggio: rigoroso, scarno e coraggioso.