“Ogni paesaggista sa che in fin dei conti sta eseguendo il proprio autoritratto” dice uno dei tanti personaggi de L’oro del Reno, rivolgendosi direttamente a colui che osserva e commenta (Neri Marcorè), come fanno tutti coloro che attraversano questa corale fuori dal tempo ma dentro lo spazio. Che è il Reno, appunto, il paesaggio con figure che Lorenzo Pullega (esordiente nel lungometraggio) omaggia immergendosi nel genius loci, nello spirito di un fiume che attraversa l’Emilia Romagna portando con sé la memoria di un passato leggendario e le istantanee di un presente scontornato dalla cronaca.

E Pullega, bolognese classe 1991, sa che inquadrando un luogo sta parlando di sé e del proprio posto nel mondo, dei fantasmi della tradizione orale, dei corpi che costruiscono la cultura popolare, delle storie che costituiscono quel repertorio tramandato di epoca in epoca per eternare una specifica mitologia provinciale dall’estensione naturalmente universale.

Lo fa partendo da un’immagine che vale il film: alcuni melomani giapponesi, vestiti da vichinghi, che amano così tanto Wagner da volerlo celebrare con una traversata nel fiume a cui ha dedicato uno dei suoi capolavori, non sapendo, tuttavia, che il Reno in questione è un altro.

L'oro del Reno
L'oro del Reno

L'oro del Reno

L’omonimia con uno dei simboli della cultura europea innesca ironia ma anche una sorta di dichiarazione d’intenti: Pullega e i suoi sceneggiatori Federico Montevecchi e Roberto Romagnoli prendono in prestito il titolo wagneriano per cercare il carattere emiliano nel dionisiaco (e viceversa) e si servono della presenza invisibile ma dialogante di un regista incaricato da uno strambo circolo locale di realizzare un documentario sull’umanità fiumana.

Un paesaggio è sempre un autoritratto, appunto, ma poi è lo stile – o perlomeno l’approccio o l’intenzione – a definire orizzonti e confini: il realismo si diluisce nel favoloso, l’epica scopre una consistenza onirica, il documentario si ritrova a farsi testimone dell’immaginifico su cui si edifica un mondo a parte.

L’oro del Reno è la sua gente che non può non abitare su quelle sponde, un universo lunare e terragno in cui emergono il gusto del paradosso e l’amore per figure eccentriche, un poema dei lunatici pieno di facce che sembrano uscire da una galleria di Martin Parr o incarnarsi dalle pagine di Gianni Celati, quasi fossero sfuggiti da una visione tardo felliniana o da un ricordo del primo catalogo avatiano, tutti inscindibili dal territorio e immortalati da piani sequenza sospesi tra l’estasi e il controllo della materia.

L'oro del Reno
L'oro del Reno

L'oro del Reno

“Sembriamo pazzi noi a star fermi qui tutto l’anno, hai voglia te a correre qua e là per cercar disperatamente di far accadere qualcosa” spiega uno dei personaggi al regista narratore, offrendo una parafrasi interna a tutto il film, per poi concludere che “il punto è che le cose accadono continuamente, dappertutto”.

L’oro del Reno ha delle immagini che restano, capaci di cogliere l’incanto (i tuffi dei ragazzi nudi, Rebecca Antonaci sulla barca) o la stravaganza (l’idillio dei pensionati, i buffi amministratori: citiamo, del cast, anche Giuseppe Gandini, Marco Mario De Notaris, Eva Robin’s, Lucianna De Falco), una discontinuità che ne inficia la tenuta narrativa, ma sa esaltarsi per un’attitudine affettuosa e un côté bizzarro. Con un finale astuto quanto affascinante, con Gabriella Ferri che ci ricorda che “ognuno ha tanta storia, tante facce nella memoria, tanto di tutto, tanto di niente”. Presentato in concorso al Festival di Rotterdam, miglior regia italiana al Bif&st di Bari.