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L’Esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual
C’era una volta L’avvocato del diavolo, dove Pacino giganteggiava in completo nero, padrone del gioco, verbo luciferino e sguardo da tempesta. Qui invece, nel saio di Padre Theophilus Riesinger, sembra capitato per errore nel backstage di un cinepanettone spirituale. Gesticola, mugugna, arranca. Non si capisce mai se stia cercando Dio o il camerino. Che potesse essere molto più convincente come diavolo che come esorcista, lo sospettavamo già: L’Esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual ci ha tolto ogni dubbio. David Midell dirige con la serietà di chi crede di avere tra le mani il caso più documentato della demonologia americana – e tecnicamente è vero.
L’esorcismo del 1928, a Earling, Iowa, resta uno dei più dettagliati della storia ecclesiastica, tra testimoni oculari, cronache giornalistiche, verbali riservati e scritti teologici. Ma una cosa è la carta, un’altra è il cinema. Trasformare la possessione di Emma (conosciuta anche con lo pseudonimo di Anna Ecklund) in un horror cinematografico dovrebbe significare fare i conti con l’orrore soprannaturale, non con il soprammobile dell’orrore. È un film protocollato. Teme di essere troppo spettacolare, e così si rifugia nel rigore. Ma anche il rigore, se vuole funzionare, ha bisogno di stile, ritmo, tensione. Qui siamo dalle parti dell’aula scolastica.
Voci gutturali, crocifissi che tremano, frasi in latino, corpi contorti, qualche vomito ben piazzato e il solito sospetto di un demone che ama il teatro più della teologia. Il problema è che li conosciamo tutti, questi gesti. Sono diventati prevedibili come i brividi fuori stagione. E senza una vera regia dell’inquietudine, tutto scivola via in una ripetizione priva di climax, dove ogni rituale sembra solo una variazione svogliata del precedente.


L’Esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual
La camera a mano – scelta “realistica” – non aiuta. Doveva avvicinare lo spettatore, trascinarlo dentro, e invece sembra usata senza convinzione: a tratti finta documentazione, a tratti sguardo impersonale. Non diventa mai occhio partecipe né punto di rottura. È una presenza neutra, come se anche lei fosse lì per caso, a verificare che tutto sia conforme ai protocolli.
Dan Stevens, nei panni di Padre Joseph, dovrebbe incarnare il dubbio razionale, ma recita con la compostezza di chi ha letto il copione a voce alta una sola volta. Il suo conflitto interiore – fede vs scienza – è talmente abbozzato da sembrare un appunto dimenticato in fase di scrittura. Abigail Cowen è la posseduta. Urla, graffia, cambia voce. Lo fa bene, ma lo fa nel vuoto. Manca una costruzione, un prima e un dopo. Non sappiamo chi fosse Emma, quindi ci importa poco di chi diventa. Il film accenna a un possibile sottotesto: il dominio maschile sulla spiritualità, la violenza patriarcale della possessione, l’oscura attrazione tra autorità e sottomissione.
Ma tutto resta lì, in superficie. Le suore fanno tappezzeria, la presunta tensione erotica tra prete e novizia è buttata lì come se ne avessero discusso al catering. Si salvano alcune suggestioni – l’ambiente claustrofobico del convento, certe apparizioni notturne – ma sono bagliori che si spengono in fretta. Anche l’idea di aderire il più possibile alla cronaca reale (senza però diventare Requiem, che ci era riuscito benissimo) si trasforma in una trappola: il film non sa se essere cronaca o spettacolo. E così finisce per non essere né l’uno né l’altro. Il vero peccato mortale è dimenticare che l’horror non ha bisogno di verità, ma di paura. E qui non si trema mai. Si osserva, si prende atto, al massimo si sbadiglia. Emma Schmidt torna a farsi esorcizzare per l’ennesima volta, ma ormai lo fa con l’aria di chi conosce bene la trafila. Demone incluso.