Più che il reboot del film del 2001 che consacrò il suo autore, Le fate ignoranti – La serie è l’apoteosi dell’OCU, l’Ozpetek Cinematic Universe. Se la Marvel ha gli Avengers, Ferzan ha gli abitanti del quartiere Ostiense. E anche quando si sposta altrove, come nella Puglia delle Mine vaganti, i personaggi del regista turco-romano restano coerenti con la sua cartografia sentimentale.

Si capisce il motivo per cui Disney+ abbia scelto proprio lui per la sua prima produzione italiana: Ozpetek è il creatore di un universo riconoscibile, un cineasta che partendo dal modello Almodóvar è riuscito in un certo senso a farsi brand rassicurante.

Anche troppo, magari: difficile trovare qualcosa di davvero imprevedibile negli otto episodi che ripensano, aggiornano, alleggeriscono il film originale. E non tanto perché ricalcano una storia che già conosciamo, quella dell’incontro tra Antonia (Cristiana Capotondi, finalmente inconsueta), giovane vedova borghese, e Michele (l’ottimo Eduardo Scarpetta, qui un po’ neo-Favino), l’amante del marito morto in un incidente (Luca Argentero, di nuovo presenza-assenza come in Saturno contro, introduce ogni episodio).

Le Fate Ignoranti. Credits: Disney+
Le Fate Ignoranti. Credits: Disney+
Le Fate Ignoranti. Credits: Disney+
Credits: Disney+

In questa produzione dall’ambizione internazionale, Ozpetek si accomoda in una comfort zone che corrisponde alle esigenze della committenza (attrarre un pubblico che forse non lo associa immediatamente a una piattaforma solitamente associata a contenuti “family”), asseconda i bisogni dei cultori, intrattiene con quella facilità che gli è propria attraverso la regia calda, elegante, circolare (qui condivisa con Gianluca Mazzella, suo storico aiuto regista).

In fin dei conti fa tutto ciò che si chiede a una serie: un’evasione costruttiva, il piacere e il senso del racconto, un’empatia con personaggi ai quali è impossibile voler male. Nei vent’anni che separano film e serie, il mondo è cambiato, in primis vivaddio la percezione collettiva verso coloro che un tempo venivano tenuti ai margini poiché considerati “diversi”.

D’altro canto, Ozpetek parte dai presupposti che passano i secoli ma i sentimenti sono sempre gli stessi, che se qualcuno vuole custodire segreti inconfessabili può continuare a farlo nonostante le tecnologie invasive, che “non basta una vita a raccontare un grande amore”.

Riprendere in mano il suo film più identificativo gli dà l’occasione per accarezzare gli abitanti che affollano il suo teatro, cioè il condominio che si arrampica fino in cima dove c’è il grande appartamento con terrazza di Michele (luoghi rivisti nell’ultimo La dea fortuna, per molti versi il primo passo di un “ritorno a casa” dopo le peregrinazioni leccesi e napoletane).

Credits: Disney+
Credits: Disney+
Credits: Disney+
Credits: Disney+

Non di rado la corale sovrasta i protagonisti, con i comprimari che capitalizzano i rispettivi drammi per rivendicare spazi (da non sottovalutare il peso specifico degli interpreti di contorno, tutti più o meno già affini all’autore): c’è molto affetto nei confronti delle parabole di Serra (il feticco Yılmaz, amministratrice dal passato oscuro), Luisella (Paola Minaccioni, vorace e timida, giocosa e malinconica), Annamaria (Ambra Angiolini, di nuovo con la fissa dell’astrologia dopo Saturno contro), Vera (Lilith Primavera, nata in un corpo d’uomo), Veronica (Carla Signoris, ancora mamma sorprendente sulle orme di Allacciate le cinture, sempre infallibile).

Qualcuno per forza di cose resta indietro, alla ricerca di attenzioni (la coppia composta da Filippo Scicchitano e Edoardo Purgatori, il vecchio del gruppo Edoardo Siravo che ricorda l’Ennio Fantastichini di Saturno contro), mentre spuntano cammei di amiche del regista (Milena Vukotic un po’ chiaroveggente, Elena Sofia Ricci come nobildonna perspicace) e si impongono le pettegole Tre Marie Patrizia Loreti, Giulia Greco e Mimma Lovoi.

Il rischio di sfilacciare la narrazione è costante, così come emergono anacronismi nel sintonizzarsi sulle generazioni più giovani e nel descrivere una post-bohémien ormai diventata pura borghesia, e le marche tipiche del suo cinema sembrano imprigionare Ozpetek in una tendenza alla reiterazione che sconfina sopra le righe (il soprano drag queen che canta Mina in lyp sinc, la stessa Mina nella canzone che chiude ogni puntata, la colonna sonora turca, la melomania, Cocktail d’amore che riecheggia al primo incontro tra i due “vedovi”).

Restano uno sguardo luminoso sul futuro (complice la fotografia di Luigi Martinucci) e un calore umano che pochi autori italiani sanno esprimere. Non è poco, forse un po’ di coraggio in più non sarebbe guastato, però, tutto sommato, se l’obiettivo era puntellare un immaginario e non rivoluzionarlo ci siamo.