La storia del cinema è ampiamente popolata dalle biografie di cineasti che fin da fanciulli manifestano il viscerale amore per la settima arte. Dal primo approccio nelle sale buie di quartiere, all’estasiante sensazione di immersione in qualcosa di fascinoso e al vibrante desiderio di dover esprime il proprio punto di vista tramite la combinazione di luci, ombre ed indomiti personaggi.

E come il piccolo Sammy nel recente The Fabelmans, Samai, il bambino protagonista di Last Film Show di Pan Nalin, appena sedutosi sulle scomode panche del modesto cinemino di una povera cittadina dell’India rurale, rimane subito affascinato dalle immagini che si susseguono maestose sul grande schermo, scoprendo immediatamente un’innata passione.

Totalmente stregato dalla magia del cinema, il ragazzino inizierà a saltare la scuola, salire sul treno e, senza biglietto, a nascondersi nella cabina di proiezione dopo aver “preso per la gola” il proiezionista. Roboanti inseguimenti, avvincenti scontri e coinvolgenti coreografie, abbellite dalle sgargianti tonalità di abiti tradizionali, invadono gli occhi di Samai che si convince sempre di più dell’importanza genitrice della luce nella narrazione filmica. Da quel momento in poi tutto cambierà e anche il suo quotidiano girovagare, recuperando oggetti lungo i bordi delle strade, contribuirà ad accrescerne la devozione. Ma la sua vita non è poi così facile: figlio di un venditore di tè nella piccola stazione ferroviaria locale, è costretto ad aiutare il padre nel poco redditizio lavoro e a scontrarsi con i suoi rigidi principi sul come comportarsi e sul cinema, ritenuto inappropriato per chi appartiene alla casta dei bramini come loro. La dedizione e la caparbietà, in ogni caso, non si affievoliranno, anzi, acuiranno tanto da far cambiare l’ordine delle cose.

Strutturato come i più classici coming of age, il film ha uno svolgimento non banale, bensì convenzionale nello snodarsi tra la presenza di un genitore contrario alle volontà artistiche del figlio, l’ostinatezza del giovane nel perpetrare l’obiettivo, l’amicizia con qualcuno “del mestiere” che gli possa insegnare e l’happy ending finale.

Last Film Show è sicuramente pregno di amore per la cinematografia e il citazionismo che ne deriva è evidente, ma sovrabbondante nella resa finale. L’omaggio idolatrante ai maestri e alla pellicola, come entità vivente fatta di celluloide e intrisa di sogni, può apparire, tirando le somme, stucchevole.

L’aspetto sicuramente più interessante è l’appartenenza al luogo, alle tradizioni, ai colori saturi e alle sfumature dei barattoli di spezie, collocati nella cucina all’aperto o all’opacità della terra mossa dal correre dei bambini nei piccoli momenti di totale giovinezza.

Attingendo alla sua infanzia, Nalin, confeziona l’epitome di quest’ultima rendendola una favola personale e al contempo universale in cui, probabilmente, molti coetanei e conterranei di Samai potranno riconoscersi.

Proprio per questo motivo va considerata una fiaba moderna e come tale può e deve essere giudicata: irreale, ottimista e nutrita di qualche vezzo di troppo.