È il terzo film in dodici anni per Phyllida Lloyd, La vita che verrà - Herself (in concorso ad Alice nella Città, che l'ha presentato in coproduzione con la Festa del Cinema di Roma), e il terzo ritratto femminile dopo Mamma mia! e The Iron Lady. Tre film molto diversi tra loro ma che, a ben vedere, hanno più di un elemento in comune: la centralità della donna nell’economia del racconto, un percorso di emancipazione rispetto alle norme, una narrazione dal battito musicale.

Infatti, nella storia di Sandra – una giovane madre che, dopo l’ennesima violenza domestica subita dal marito, trova il coraggio di lasciarlo per rifarsi una vita e, nella vana attesa di un vero alloggio, decide di costruire ex novo una casa per sé e le due figlie – la cosa forse più interessante sta nel dialogo con le canzoni. La traumatica sequenza dell’aggressione in cucina è preceduta da un momento felice: mamma e figlie ballano e cantano spensierate Chandelier di Sia (“ondeggerò dal lampadario/ vivrò come se il domani non esistesse”).

Sia torna più tardi, nel duetto con David Guetta di Titanium, che accompagna le scene in cui vediamo la protagonista (Clare Dunne, anche sceneggiatrice) impegnata a costruire la nuova casa insieme a un gruppo di conoscenti improvvisatisi muratori. “Sono a prova di proiettile, niente da perdere/ sparate, sparate/ mi rimbalza addosso, prendetevi la vostra pioggia/ sparate, sparate/ mi sparate ma io non cadrò/ sono di titanio” dice quella canzone che sembrerebbe così stridente rispetto alla drammaticità del film.

E poi c’è un altro momento musicale, più intimo, che anticipa un passaggio della storia che è meglio non rivelare. Insomma, ne La vita che verrà Lloyd indovina alcuni stratagemmi per cercare una relazione con il pubblico che non sia semplicemente edificata sull’empatia nei confronti della protagonista, ma anche sulla possibilità di aprirla a una dimensione più rilassata e allontanarla dal dolore che ricorre in rapidi flashback.

In questo modo costruisce un film popolare nella tradizione del cinema inglese, che sa mettere insieme il percorso di autodeterminazione femminile e il senso di comunità (il concetto, dall'irlandese antico, di "methal": persone che si aiutano a vicenda). Certo, c’è il rischio dello schematismo (i nuovi amici sono un edile con figlio down, un’immigrata africana, uno sbandatello, più un’anziana dottoressa che si prende a cuore Sandra e l’aiuta nel suo progetto), ma Lloyd schiva bene il pericolo di invischiarsi nelle secche del film a tesi.

Il racconto ha presa immediata, a Sandra e alle bambine si vuole bene da subito, la strada del “feel good movie” si apre presto: dignitoso e onesto, fruibilissimo, La vita che verrà sa coinvolgere lo spettatore senza ricatti sentimentali. E chi l’avrebbe mai detto che avremmo visto Lloyd alle prese con questo cinema “socio-emotivo”, in una terra di mezzo tra Ken Loach e Peter Cattaneo.