È possibile affidarsi ai ricordi per rintracciare la verità? Messe su carta, le nostre “memorie” che valore assumono per gli altri? Soprattutto per chi ha fatto parte della nostra vita?

Ruota intorno a queste domande il nuovo film di Kore-Eda Hirokazu, regista nipponico Palma d’Oro a Cannes 2018 con Un affare di famiglia, che per la prima volta dirige e ambienta un proprio film al di fuori del Giappone, in Europa, in Francia.

La vérité – apertura in concorso della 76ma Mostra di Venezia – esplora come altre volte accaduto nel cinema di Kore-Eda gli intrecci emotivi di una famiglia. Nello specifico, la famiglia è quella di Fabienne (Catherine Deneuve), diva del cinema francese circondata da uomini che la adorano e la ammirano.

Quando pubblica la sua autobiografia (Le vérité, appunto), la figlia Lumir (Juliette Binoche) torna a Parigi da New York con marito (Ethan Hawke) e figlia. L’incontro tra madre e figlia si trasformerà velocemente in un confronto: le verità verranno a galla (?), i conti saranno sistemati, gli amori e i risentimenti confessati.

Magie e bugie, family-drama e cinema-nel-cinema si snodano lungo un sentiero dove leggerezza e profondità si amalgamano grazie ad una scrittura sopraffina (lo script è del regista stesso) e al talento smisurato dei suoi interpreti, con Deneuve-Binoche allacciate in un passo a due di un’intensità e una classe commoventi, sullo sfondo di un autunno parigino di malinconica bellezza.

Freschezza e umorismo non abbandonano mai la narrazione, andando così a riempire quel senso di vuoto che aleggia sui protagonisti: è la storia di un’assenza – dopotutto – a calibrare da anni i rapporti tra questa madre troppo impegnata a rincorrere la finzione (“della quotidianità non frega nulla a nessuno”) e una figlia che, attrice mancata, diventata adulta lavora inventando storie, come sceneggiatrice.

Ed è qui che il metacinema di Kore-eda trova il suo sbocco più naturale: Lumir accompagna Fabienne sul set del nuovo film che sta girando, un’improbabile sci-fi intitolata Ricordi di mia madre, dove la protagonista Manon (Manon Clavel) è costretta a vivere nello spazio per scongiurare la fine prematura dovuta ad una malattia terminale. Torna sulla Terra ogni 7 anni, ritrovando la figlia di volta in volta cresciuta: Fabienne interpreta questa figlia, ormai 73enne, al cospetto di una madre più giovane di lei di almeno 40 anni.

Non detti e fantasmi riemergono via via che l’attrice si avvicina al termine della lavorazione. Su tutto, il ricordo di Sarah (alimentato dalla somiglianza con Manon), una collega scomparsa tragicamente molti anni prima, con cui Fabienne era legata da un rapporto profondo e l’allora bambina Lumir trascorreva parte della sua infanzia.

Impossibile, a tal proposito, non collegare questo artificio narrativo alla reale, dolorosa perdita della Deneuve, quella della sorella-attrice quasi coetanea Françoise Dorléac, morta a soli 25 anni in un incidente d’auto.

Finzione e realtà si sovrappongono, ancora una volta, piccole menzogne vengono preferite ad amare verità, i ricordi sbiadiscono e riaffiorano senza soluzione di continuità, l’autunno volge all’inverno. E il cinema di Kore-eda – pur spostandosi ad altre latitudini – riesce a non disperdere la propria poesia.