La lotta di classe è ormai una colonna portante del cinema contemporaneo. Joker di Todd Phillips è la storia di una rivolta, di una sommossa popolare nata dalla maschera di un clown. Il ballo di Joaquin Phoenix sul cofano di una macchina distrutta è l’alba di un nuovo ordine, da cui non a caso nasce il mito dell’Uomo Pipistrello. Chi ha meno alza la testa, sfidando la classe dirigente. E ancora. Spostiamoci in Corea del Sud, pensiamo a Parasite di Bong Joon-ho. I poveri, che vivono sotto il livello della strada, si sostituiscono ai ricchi. Piano piano prendono il loro posto, sorgono dal basso, come in Noi di Jordan Peele, dove i cloni di un’umanità disperata sono pronti ad elevarsi dalle tenebre.

La tigre bianca, il nuovo film del regista Ramin Bahrani, mescola Joker e Parasite. Alcune volte il protagonista si guarda allo specchio e sorride. Non è malato di mente, sta osservando i suoi denti martoriati, perché nessuno gli ha mai insegnato che doveva lavarseli. Ironia? Forse. Viene da un villaggio dell’India che potrebbe essere uscito dai capolavori di Satyajit Ray. Decide di cambiare la sua esistenza mettendosi al servizio di una famiglia molto facoltosa. Fa licenziare l’autista ufficiale, e lui da rimpiazzo si trasforma nel “servo” perfetto. Ed è solo l’inizio di una lunga scalata. L’obiettivo è entrare nelle grazie dei potenti, essere un amico su cui poter contare.

La vicenda ha una struttura verticale, che è spesso presente nei progetti di Bahrani. 99 Homes del 2014, con Andrew Garfield, era ambientato in America, si concentrava su una vittima della crisi, in un’epopea di sfratto e rinascita. Anche in Fahrenheit 451 Bahrani spiegava come sovvertire un sistema malato, in cui i libri venivano bruciati perché pericolosi. Ma raccogliere l’eredità della penna di Ray Bradbury e della macchina da presa di François Truffaut non era semplice.

Con La tigre bianca il cineasta di Winston-Salem ritrova l’ispirazione dei suoi primi film. Gira con sicurezza, anche se alcune volte l’enfasi e le atmosfere da videoclip sembrano prendere il sopravvento. Gli orpelli, la continua voce fuoricampo, l’infrangersi della quarta parete sono ormai tratti distintivi della regia di Bahrani. Però con animo militante condanna la società corrotta, e sottolinea che non è più tempo di eroi. Nessuno è innocente e, come spiega il protagonista: “Per raggiungere una buona posizione in India ci sono due strade: il crimine o la politica”. Per Bahrani non è possibile sognare, si può solo scegliere tra Quei bravi ragazzi e Tutti gli uomini del re.

 

La visione pessimista viene rafforzata dalla satira, da alcune sequenze brillanti in cui l’ignoranza porta a risvolti tragicomici, come quando il “padrone” deve rendere omaggio a ogni albero o pietra del circondario perché gli viene fatto credere che, per gli abitanti del luogo, siano sacri. Da Hollywood a Bollywood, Bahrani si concentra sugli ultimi. Descrive una gerarchia da cui non si può sfuggire, dove però la fiducia è un elemento imprescindibile.

Gli “impiegati” in ogni momento potrebbero voltare le spalle al loro datore di lavoro, ma accettano le ingiustizie perché ormai sono consuetudini da cui non si può sfuggire. C’è quasi una ritualità nel calpestare i diritti dei più deboli. Ed è proprio contro questa violenza continua che si scaglia Bahrani, mettendo in scena l’incattivirsi dell’uomo comune, la bestialità pronta a scatenarsi. Tratto dall’omonimo romanzo di Aravind Adiga.