È un talento su cui scommettere, quello di Beatrice Baldacci, autrice di un film piccolo e personale, realizzato a “micro budget” nell’ambito di Biennale College, e proiettato a Venezia e a Roma. Baldacci riprende le immagini amatoriali di famiglia, al centro del suo cortometraggio Supereroi senza superpoteri, e allestisce una narrazione rarefatta in una campagna priva di riferimenti temporali.

Al centro della scena, due personaggi: il timido Giulio, che ha deciso di trascorrere l’estate con i genitori, e la disinibita Lia, che gli si para letteralmente davanti con la sua inespressiva e gratuita follia. L’incontro genera nel giovane Giulio una pulsione erotica che sconfina nell’innamoramento adolescenziale: lei, d’altro canto, non perde occasione per provocarlo, o sfidarlo in assurde prove di coraggio. Ma la ragazza nasconde un segreto, nelle pareti della casa estiva dove non metteva piede da anni: la sua maschera impassibile nasconde un dolore lancinante, un dramma la cui via d’uscita è ancora più tragica. Tutte cose troppo grandi per Giulio, che dapprima si sente sicuro di poter aiutare Lia, per poi essere costretto a farsi da parte.

Sarebbe un peccato spoilerare il mistero di Lia, che lo spettatore scopre a metà film assieme a Giulio: basti sapere che attiene a un tema molto delicato come l’eutanasia, ed è la trovata attorno alla quale gira tutto il film. Il resto? Attesa, tempi dilatati, grande utilizzo di esterni e tentativo, non sempre riuscito, di far parlare ambienti e locali vuoti in vece di ciò che si vorrebbe ma non si può raccontare altrimenti.

Non può che essere così, trovandoci di fronte a un lungometraggio dal budget praticamente inesistente: è sempre un bel dire, che i paletti finanziari dovrebbero stimolare la creatività, per tacere dei profeti del “meglio così che niente”, quando a conti fatti costringono gli autori a pensare in piccolo dalle fondamenta, a sfornare storie piccole, minimaliste, dove succede poco ma di quel poco bisogna accontentarsi perché, appunto, “meglio così che niente”.

Quasi tutto, ne La tana, è il visibile risultato di una serie di costrizioni produttive evidenti, e ben poco la conseguenza di precise scelte tecniche (come il formato 1.37:1). A risentirne è un cast poco all’altezza (con la parziale eccezione di Irene Vetere), una fotografia in esterni a costo zero non particolarmente brillante, un commento musicale (di Valentino Orciuolo) intrigante ma utilizzato prevalentemente per dare maggiore scorrevolezza alle scene.

A non risentirne affatto, ed è un sollievo, è invece proprio la regia di Beatrice Baldacci: che ha occhio e sensibilità, sa dove collocare la macchina da presa, e riesce qua e là a sbalordire, sia giocando coi volti in primissimo piano dei suoi personaggi (per i quali nutre un vivo, comprensibile affetto) che con i dettagli sullo sfondo, in grado di assumere significato (come la scala sull’albero, che Lia userà per l’ennesimo tiro a Giulio).

D’accordo la vetrina, d’accordo le occasioni da cogliere al volo, ma da troppo tempo il cinema italiano spaccia per palestra la propria incapacità (o impossibilità) produttiva, rilasciando film che per loro stessa natura non possono ambire a una decente visibilità. Bisogna avere coraggio, e iniziare a produrre come si deve autori meritevoli come Beatrice Baldacci, che ha davanti a sé una carriera di tutto rispetto.