La passione di Giosuè l'ebreo di Pasquale Scimeca è un film che a nostro avviso va oltre le stesse intenzioni dell'autore. L'argomento è talmente complesso che diventa inevitabile che chiunque vi si avvicini rischi di aprire porte senza richiuderle, lasciando sempre l'impressione di avere trascurato qualcosa, come se questo stesso trascurare diventi punto di vista inappellabile. Non sappiamo se Scimeca abbia un'origine da rivendicare, ma ci sembra che la determinata pacatezza dimostrata ad esempio in argomenti e altri film  importanti come Placido Rizzotto lasci in questo caso un po' il posto a una specie di voglia di rivalsa. Probabilmente le nostra analisi risulterà paradossale, ma gli esempi hanno sempre bisogno di essere esasperati per poter essere chiari. Brevemente la storia: la vicenda inizia nel 1492, anno di scoperta dell'America (ha un significato?): Giosuè, ebreo, vive in Spagna con la famiglia. Alla fine del XV secolo re Ferdinando e la regina Isabella riunificano la nazione in nome del cattolicesimo ed ebrei e musulmani vengono messi al bando. Ritenuto il nuovo Messia, quello che in realtà gli ebrei ancora attendono, Giosuè è costretto ad approdare in Italia, prima a Napoli e poi in Sicilia, dove avviene l'epilogo con la morte del protagonista. Ci sembra, il film, una specie di resa dei conti. Sono stati accusati gli ebrei di avere causato la Crocifissione di Gesù Cristo? Ebbene, io vi dimostro che i cristiani hanno fatto (farebbero) lo stesso. La rievocazione storica della Casazza in un paese della Sicilia, consistente nella messa in scena della Passione si trasforma per volontà dei vescovi in una Crocifissione vera e propria. Di cui l'ebreo Giosuè, nella parte del Cristo grazie alla sua preparazione dottrinale, rimane vittima. Secondo le intenzioni di Scimeca questo film dovrebbe servire al dialogo e, parole sue, dovrebbe incoraggiare la Chiesa a gridare che Cristo è ebreo. Secondo noi fallisce entrambi gli obiettivi. In primo luogo perché un regista che si propone di affrontare un simile argomento in nome del dialogo dovrebbe praticare un distacco maggiore, il che non significa non affermare il proprio punto di vista. Poi, ci sembra, sono oltre quarant'anni che Chiesa e comunità ebraica dialogano. E credo sia un dialogo aperto a tutti gli interlocutori, registi compresi.