A Sophia, professoressa universitaria di filosofia a Montréal, non manca niente: nel giorno del suo quarantesimo compleanno sono tutti attorno a lei, dal compagno con cui le cose sembrano andare bene agli amici intellettualmente stimolanti. Ma, lo sappiamo, i nostri volti sono cartografie sentimentali, i sorrisi sbilenchi svelano le increspature dell’anima e gli sguardi si perdono al di là di quel che accade qui e ora. E così capiamo subito che qualcosa ribolle nel profondo di Sophia, più un’inquietudine che un’insoddisfazione: la compagnia non brilla per leggerezza, il matrimonio è noiosetto, il sesso non è che sia entusiasmante.

“Ogni storia ha un inizio, un centro e una fine”, diceva la narratrice della Signora della porta accanto di Truffaut, e La natura dell’amore (presentato a Cannes 2023 in Un Certain Regard) tiene a mente la lezione: da qualche parte una storia deve pur iniziare. E Monia Chokri fa qualcosa di assolutamente cinematografico: nel momento in cui Sophia è pronta all’avventura, le regala un incontro. Con un uomo che non c’entra niente con lei e il suo quadretto bobo (bourgeois bohemian): Sylvain, l’aitante falegname che si sta occupando della ristrutturazione della casa di villeggiatura.

La prima mezz’ora dice tutto: lei lo vuole, lui la prende, il desiderio esplode, la casa da rifare come teatro perfetto. I primi piani sul volto di Sophia mentre Sylvain le dà piacere dialogano con quelli della cena tra amici: la norma contro la divergenza, il desiderio inaspettato anziché la prevedibile liturgia. Chokri mette in scena l’epifania del sentimento più che il risveglio della carne, rivelando nel volto della splendida Magalie Lépine Blondeau l’incrocio fatale tra la consapevolezza dell’errore (un tradimento) e lo scandalo del piacere.

La natura dell'amore © Immina Films et Fred Gervais
La natura dell'amore © Immina Films et Fred Gervais

La natura dell'amore © Immina Films et Fred Gervais

E tutto si tiene perché il terzo lungometraggio della cineasta canadese, già indimenticata protagonista di Les amours imaginaires (e Dolan aleggia) piega i cliché a proprio favore, smonta e riconfigura gli stereotipi, esplorando le infinite possibilità di una commedia sentimentale finalmente tridimensionale. Perché il discorso amoroso non si declina solo sul piano erotico ma anche tenendo conto di un conflitto sociale reso qui in modo sorprendente: l’amore al tempo di una lotta di classe che non è tanto un tema economico quanto intellettuale, dove Sylvain è un selvaggio pratico e manuale (Pierre-Yves Cardinale, carisma eccezionale) e Sophia interpreta il proprio vissuto alla luce di quanto ha studiato e di quel che insegna a lezione.

E in questo film tenero e disinibito, colto e sensuale, divertente e struggente, dove ogni cosa è illuminata e la luce di André Turpin accarezza i corpi nascosti in piena vista, Chokri non dimentica i maestri, poiché è attorno alla natura dell’amore che il cinema (francese) ha plasmato un immaginario. È un film in cui convivono i paratesti teorici di Resnais e gli andirivieni palpitanti di Lelouch, rime baciate e capovolte della Calda amante di Truffaut e copricapi sotto la neve come la Maud di Rohmer, con un finale lancinante tra benzina e lacrime che non può non far pensare a Demy e Charbourg: d’altronde, da qualche parte una storia deve pur finire.