Se il titolo italiano riporta a certi drammi psicologici del cinema classico, quello originale si limita a citare un nome e cognome, identità anagrafica ma anche chiave di lettura per la storia.

Difficile parlare de La doppia vita di Madeleine Collins senza cadere nella trappola degli spoiler. In casi come questi si rimpiange la spettacolare, felina, tagliente capacità di sintesi di Morando Morandini, uno che riassumeva la trama de La donna che visse due volte così: “Scottie, investigatore di San Francisco che soffre di acrofobia, sorveglia Madeleine, moglie con presunte tendenze al suicidio di un ex compagno di scuola, e se ne innamora. Lei si butta da un campanile. Lui va in depressione, ma qualche tempo dopo incontra Judy che gli appare come la reincarnazione (degradata) di Madeleine”.

Non evochiamo a caso il capo d’opera di Alfred Hitchcock, perché la protagonista del film di Antoine Barraud si chiama Judith (sentite l’assonanza?) e, nascondendosi dietro gli impegni di lavoro, si sdoppia (eh già) tra Svizzera, dove cresce una bambina con Abdel, e Francia, in cui ha due figli con Melvil. In un turbinio di bugie, reticenze e segreti durato anche troppo a lungo, la donna si ritrova incastrata nella sua stessa macchinazione e messa all’angolo dalle persone a lei care. Ma allora chi è Madeleine (proprio quel nome...)? E chi è la donna che, nel camerino di una boutique, cade improvvisamente battendo la testa?

È un regista colto e intrigante, Barraud, che crede nella sospensione dell’incredulità, incide nella carne dei corpi in movimento per cercarvi dentro la sostanza di cui sono fatti i fantasmi. Nel solco del maestro, scandaglia la mostruosità celata dalle bionde glaciali dunque fatali, si mette dalla parte del torto perché ammaliato dal percorso con cui si barrica nelle finte verità, ha fiducia nel cinema come strumento per manipolare e dominare lo sguardo.

Semina indizi, allude e si nasconde: La doppia vita di Madeleine Collins mette in scena le conseguenze delle menzogne, accompagna lo spettatore in un labirinto che si svela sempre più tortuoso, finge di aiutare nella composizione di un puzzle in cui mancano le tessere giuste.

È un thriller d’altri tempi, certo un po’ confuso nella sua esecuzione in particolare nella seconda parte, ma ambiguo e maliardo come la sua splendida protagonista, Virginie Efira, tra le poche in grado di conciliare l’anima tormentata e degradata con l’allure da femme fatale. Come indagine psicologica è avvincente, la tensione resta a un livello piacevolmente vertiginoso e il finale mette in campo una dimensione metatestuale sul potere dell’inganno (aiutato dalla presenza di Nadav Lapid, l’autore israeliano di Policeman e Synonymes qui in un ruolo cruciale). Presentato alle Giornate degli Autori a Venezia nel 2021.