Cinema nel cinema, ma anche cinema sul cinema. E la teoria di preposizioni può continuare: cinema per il cinema, cinema dal cinema, cinema del cinema. La Cura è un film che nasce tutto dentro il dispositivo, un laboratorio sul fare un film in quest’epoca, strumento teorico nelle mani di un autore che nelle sue migliori sortite sa muoversi tra realtà e finzione.

Presentato in Concorso (Progressive Cinema) alla Festa di Roma, il nuovo lavoro di Francesco Patierno porta La peste di Albert Camus nella Napoli del Covid, una terra desolata in cui una troupe cinematografica sta girando un film tratto proprio da quel romanzo datato 1947 (ricordiamone sommariamente la trama, dai forti tratti allegorici: un’epidemia inesorabile sta devastando una città e un medico si fa centro nevralgico di una umanità sospesa tra solidarietà e degrado).

Se dapprima i due piani, pur con un po’ di fatica nella comprensione generale, restano distinti, a poco a poco realtà e finzione si uniscono fino a diventare un corpo unico, in cui le dimensioni dialogano e si contaminano interrogando l’attenzione dello spettatore e portando il film verso una frontiera quasi sperimentale, certamente di ricerca.

Una proposta di traduzione e interpretazione del testo che sposta l’istituto dell’adattamento letterario al di là del canone, per attestare la permanenza del classico e immergerlo in un’attualità. Che ha la faccia della verità, cupa e tormentata, eppure venata da connotati distopici, dentro una linea che parte dal teatro civile e arriva all’oratorio laico senza rinunciare a evocazioni legate proprio all’humus intellettuale partenopeo (sponda Anna Maria Ortese e Domenico Rea, per dire; la città, non citata, si presenta da sé).

La cura
La cura
La cura

Patierno, che dal romanzo eredita scenario e temi (la fede, l’edonismo, l’indifferenza, la paura, il potere, la burocrazia, le meschinità), e costeggia l’ambizione di parlare della contemporaneità attraverso una forma che somiglia a una jam session, cogliendo nei limiti del girare durante la pandemia una possibilità per ipotizzare un tipo di cinema libero e fluido.

Ad abitarlo attori e attrici provenienti soprattutto dalle tavole del palcoscenico e ognuno ha modo di esporsi in momenti di straniante istrionismo: Francesco Di Leva, Alessandro Preziosi, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio, un inedito Francesco Mandelli e Peppe Lanzetta che tuona con le sue omelie spettrali.

Purtroppo a una struttura teorica piuttosto forte non corrispondono esiti altrettanto robusti e il gioco riflessivo finisce per far emergere il ripiegamento nelle ambizioni e il peso della progettualità. È comunque un tentativo nobile, che in un certo senso conferma l’idea che muove la selezione curata dalla direttrice artistica Paola Malanga: incoraggiare e sostenere prospettive alternative al mainstream che restano fuori dai circuiti più ortodossi.