Sei ragazzi, ventenni e trentenni che lottano contro disturbi della personalità e stati di alterazione, ricoverati in due comunità psichiatriche a Roma. Accanto, gli psichiatri e le famiglie dei pazienti. In mezzo, il disagio mentale, che Francesco Munzi non addebita, allarga: non contagio, bensì condivisione, ovvero assunzione di responsabilità e sussunzione umanista.

Un altro mondo possibile, anzi, un altro pianeta: Kripton, mutuato dal Krypton di Superman da Marco Antonio, quale proprio luogo natale: “Non è remotissimo, ma alquanto remoto è”, suggerisce il ragazzo, che si professa ebreo senza esserlo.

Da oggi in sala, un documentario di gusto, cinematografico, e sostanza, umanissima, che risponde all’estinzione delle “domande fondamentali, universali dell’essere umano” senza infingimenti, prospettando oltre gli psicofarmaci e i servizi di salute mentale una cura collettiva, meglio, comunitaria.

Materiale d’archivio quale controcanto poetico, le musiche sinuose di Giuliano Taviani e Carmelo Travia per sprezzatura gentile, il montaggio empatico di Cristiano Travaglioli, il film è provvido di osservazioni che stigmatizzano la cattività dei normali: “Io sinceramente stimo le persone che lavorano perché – dice il paziente Dimitri - hanno il coraggio di dare del loro tempo a qualcun altro. Io non me la sento di dare il mio tempo a qualcun altro, che magari lo usa pure male”.

Fondamentale, poi, l’estensione del disagio ai familiari, che non sono presenze anodine o a latere, ma investite, e pienamente, del problema: senza filtro né pastorizzazione.

Non perdetelo, questo Kripton, che riconsegna Munzi là dove merita di essere: in sala. A proposito, sono passati dieci anni dal pluripremiato Anime nere: quanto ancora deve, dobbiamo aspettare per un lungometraggio di finzione?