Kneecap allude alla gambizzazione (kneecapping, appunto) praticata in Irlanda del Nord durante i Troubles, con i paramilitari che colpivano i presunti criminali, sia politici che “ordinari” (furti, spaccio, comportamenti antisociali). Quando, nel 2017, Liam Óg Ó hAnnaidh, Naoise Ó Caireallain e JJ Ó Dochartaigh si misero insieme per costituire un gruppo musicale, scelsero di chiamarsi così con intento ironico, pensando però soprattutto a “ní cheapaim”, il cui suono è simile a “kneecap him” e sta per “non la penso così”.

Il destino è nel nome, figurarsi se ce lo scegliamo da soli, e Kneecap starebbe già qui. E però non è solo questo: quella di Rich Peppiatt è prima di tutto un’operazione teorica e linguistica, dove le forme del documentario di guerriglia (i tre “protagonisti” interpretano se stessi, benché forse interpretare non sia il verbo più corretto: reinterpretare? Reimmaginare? Rivedere?) infiammano quelle del biopic tradizionale e la lingua irlandese si impone come l’unica in grado di restituire la complessità e l’autenticità del reale.

Film dal basso che usa il lessico della strada per scagliarsi contro l’establishment alla ricerca di un senso di comunità, Kneecap è l’origin story del trio hip-hop e, in quanto tale, ha tutti gli elementi necessari per aderire al genere: il desiderio di sfondare, la passione che brucia l’anima, gli ostacoli dati dalle famiglie, l’amicizia messa alla prova.

In più ci sono il legame con le droghe (nelle immagini si avverte una tensione psichedelica: fotografia di Ryan Kernaghan, montaggio di Julian Ulrichs e Chris Gill), la vocazione politica (la campagna per il riconoscimento della lingua irlandese), la disobbedienza civile contro il sistema punitivo, il rapporto con una figura paterna che vive nell’ombra come atto di dissidenza (Michael Fassbender, che impreziosisce un cast di pregiati comprimari come Josie Walker, Jessica Reynolds, Fionnuala Flaherty, Simone Kirby).

Senza dimenticare le prese di posizione del trio testimoniate dal film ma superate dagli eventi: a un anno e mezzo dal debutto al Sundance e pochi mesi dopo aver sfiorato la nomination all’Oscar per il film internazionale (nonché a ridosso del passaggio italiano, in concorso al Giffoni Film Festival), Kneecap arriva nelle sale italiane mentre il gruppo è esplicitamente schierato su una linea pro-Palestina che gli è costata il tour americano, il boicottaggio del governo inglese, la censura televisiva della BBC.

La faccenda è evidentemente più complessa di un fanservice o di un’agiografia senza dialettica: Kneecap è audace e vibrante, radicale e osceno, schietto e viscerale, non guarda il mondo in fiamme ma si butta nell’incendio, condanna ogni forma di colonizzazione ideologica e imperialismo industriale per trovare la quadra tra la felicità dei popoli e quella delle famiglie. Un progetto dal respiro lungo che sa mettere insieme le caratteristiche di uno sfrenato intrattenimento con quelle di una solida riflessione sull’identità.