E' fedele il remake firmato da Peter Jackson all'originale King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack del 1933. La storia - scritta da Edgar Wallace - è ambientata nella New York della Depressione, dove l'attrice di vaudeville Ann Darrow (Naomi Watts) rimane disoccupata. La Grande Mela è lettaralmente preda dei morsi della fame: la Darrow ruba un pomo, ma in suo soccorso arriva il regista Carl Denham (Jack Black), un Orson Welles in sedicesimi, che la convince a unirsi al suo sconclusionato progetto cinematografico, destinazione l'esotica Skull Island. Questo prologo è visivamente sontuoso, perfino calligrafico nello spaccato socio-antropologico che offre, ma anche prolisso. Non mancano, tuttavia, colpi geniali: si fa riferimento a Fay Wray l'interprete della prima Ann Darrow - deceduta nel 2004 - non disponibile per la parte perchè impegnata in una produzione della RKO, leggi King Kong appunto. E' un indice dello sfalsamento di piani metacinematografici attuato dal cinefilo Jackson, capace di offrire allo spettatore un remake che sconvolge l'idea acquisita di kolossal hollywoodiano. Anche con questi folgoranti e sommessi appigli intertestuali. Sulla nave Venture sale anche il drammaturgo Jack Driscoll (Adrien Brody). Sbarcati sull'isola dopo un attracco di fortuna, la spedizione viene aggredita da una tribù di selvaggi in trance. Dopo 75' circa, dei 187 minuti complessivi del film, King Kong fa finalmente la sua comparsa: il gorillone sbuca dalla giungla per ghermire Ann e portarla via con sé. Il mostruoso gorilla "animato" con tecniche di motion capture dal Gollum Andy Serkis, alto 8 metri e pesante 4 tonnellate, è l'autentica star del film, interpretato da attori superiori a quelli originari, ma che nulla possono in questo contest umano vs. bestiale. King Kong nasce quando Jackson aveva dodici anni ma solo ora la tecnica l'ha potuto plasmare come voleva che fosse. Con occhi da 10 milioni di dollari, che si aprono ad accogliere pudicamente i tentennamenti amorosi della Darrow, il gorilla getta uno sguardo sul mondo che stigmatizza la meschinità umana: lui ottava meraviglia del mondo nello show da baracconi approntato da Denham. Lui ingenuo e combattivo per amore. Fino alla fine. Nel triste epilogo ricompaiono i biplani da guerra del prototipo: King Kong resiste abbarbicato all'Empire State Building, riesce anche ad abbattere tre aerei, ma infine deve soccombere. Una caduta che è emozionalmente ascesa verso i territori esplorati - e pure ancora vergini - dell'immaginario collettivo, oggi più che mai affamato di questi archetipi in muscoli e pelo, ovvero digitali. Jackson sa avvincere con cariche di dinosauri che spazzano via Jurassic Park e commuove con scene struggenti, quali lo scivolamento della bella e la bestia sul laghetto ghiacciato. E non è poco. Per lui, per noi, il cinema è ancora sogno. Sogno antico e ancor più contemporaneo. Con un cuore digitale.