Tornato nella città natia per il funerale del padre, Can assiste a un omicidio, dunque la polizia gli impedisce di uscire dai confini locali. Nel corso della permanenza coatta, incontra spesso gli strani amici del padre, mentre la presenza massiccia di cani rabbiosi costringe la cittadinanza alla quarantena. A un certo punto Can viene accusato di un crimine: come fuggire da una città barricata?

Settimo lungometraggio del turco Tayfun Pirselimoğlu (già a Locarno con Saç e all’allora Festival di Roma con Ben O Degilim), Kerr – presentato nel Panorama Internazionale del Bif&St 2022 – è una complessa e ostica esplorazione kafkiana che porta il sentimento claustrofobico in una dimensione onirica, declina il senso di minaccia imminente nel contesto di un asfissiante cul-de-sac, non lesina tracce di umorismo nero pur mantenendo alta la tensione del thriller.

Kerr lavora in sottrazione, asciuga fino a scarnificare l’azione tutta affidata alle parole, addomestica i movimenti utilizzando l’inerzia in funzione narrativa. Diretto verso un discorso allegorico anche fin troppo evidente (il crimine quasi ridotto a MacGuffin, i cani come agenti esterni incontrollabili, le ricorrenti domande sulla situazione del Paese da leggere in parallelo con gli eventi della storia), Pirselimoğlu segue le marche del “film europeo da festival” e colloca la sua storia nella frontiera di un non-luogo, toccato dai fiocchi di neve e sorvolato dagli elicotteri, immerso in un silenzio assordante e separato da interni dai tratti acidi o meschini.

Non è una contraddizione dire che Pirselimoğlu lavora sulla ripetizione e sui non-detti: il regista chiede allo spettatore la pazienza di seguire una narrazione che costeggia il teatro dell’assurdo e si colloca fuori dal naturalismo. Una richiesta che può sembrare anche una pretesa, ma tra un film che spiega ogni cosa senza porre problemi meglio un Kerr che rischia d’incartarsi per lasciare spazi all’immaginazione altrui.