Si può saltare in qualsiasi posto visibile. Si può saltare in qualsiasi posto che si è visto in passato. Sono le due regole fondamentali del "teletrasporto" dei Jumper. Individui comuni all'apparenza, capaci di straordinarie sparizioni all'occorrenza. Dalla sfinge al Colosseo, dall'Australia all'Himalaya. In un attimo. Individui come David Rice (più divertito che divertente Hayden Christensen), adolescente nel ghetto (i genitori non ci sono, i compagni sì, ma per menarlo) beato ventunenne col dono del salto (spaziale). Praticamente illimitati. Ma quando David scopre un altro allegro giramondo come lui, Griffin (Jamie Bell, l'ex ballerino in erba di Billy Elliot), apre gli occhi: la felicità della sua stirpe finisce quando incomincia quella dei paladini, una setta di fanatici (capeggiati da Samuel L. Jackson in tinta iridata) impegnati da secoli nel loro sterminio...I presupposti per fare di questo prodotto un action movie "sui generis" non mancavano. Primo: la veste iconografica. Packaging futurama e cine-nostalgia, mirabilia digitali e trucchi tradizionali: lo sguardo è all'indietro, fotorealismo e sci-fi a figura umana intera. Secondo: libertà creativa. Come nel caso di Matrix, anche qui non ci sono comics sorgente (Marvel, Dc) o paletti di trasposizione. Lo script è tratto da una misconosciuta novel di fantascienza di tale Steven Gould. Terzo: il contrappasso ideologico. Uno sbracato disimpegno aleggia nell'opinione pubblica americana? Ecco a voi un supereroe ai minima moralia: veste alla moda, flirta alla grande, tracanna boccali di birra e pensa solo a sè stesso. Peccato che dei tre presupposti, regista (Doug Liman) e sceneggiatori (David S. Goyer, Jim Uhls e Simon Kinberg) abbiano animo di sviluppare solo (e in parte) il primo. Dopo una prima mezz'ora di puro divertimento -  giocata sui desideri di ubiquità dello spettatore e sulla natura edonistica del potere - l'intreccio vira su routinarie baruffe, fanciulle in pericolo e solitudini esistenziali: in poche parole, il cul de sac dei cine-fumetti degli ultimi anni. Naturalmente psicologie a somma zero e deboli asterischi al politico (lo sfaldarsi della retorica americana, la crisi dell' interventismo, i pruriti messianici). Finale telefonato: fracasso sonoro, effetti (speciali) in esubero e via alla successione (prevista una trilogia). Una narrazione per buchi, premesse e questioni irrisolte che puntellano il film come fosse "il pilota" di una fiction seriale. E rafforzano il ragionevole dubbio che di questo in fondo si tratti.