Julien Faraut confeziona L’Impero della perfezione, un documentario su John McEnroe, tra le figure più giganti nella storia del tennis. Ma non è il “canonico” documentario (non ci sarebbe nulla di male), il regista traccia dall’inizio uno stretto parallelismo tra cinema e sport.

I due macro-contenitori di storie trovano appigli comuni in ogni svolta descrittiva della pellicola ma divergono nel punto critico, un Godard citato all’inizio e confermato alla fine da una crudele composizione ad anello: “Il cinema mente, lo sport no”.

L’orizzontalità della forma documentario viene sfruttata a dovere per esplicare, dal punto di vista cinematografico e meta-cinematografico, tratti tipici della personalità ribollente del protagonista americano. Sembra infallibile sul campo da gioco, ma come fa? Qual è il prezzo da pagare per essere come lui?

Proprio come un regista, McEnroe crea e dirige il tempo del gioco. Il risultato è che ogni match prende una direzione ben precisa, a senso unico, seppure ostacolato, esattamente come un film. I suoi gesti, la sua plasticità sembrano far parte di rituali scenografici, coreografici, persino drammatici nell’accezione teatrale (che il documentario fa derivare dal latino, ma risale fino al greco antico).

Anche il suo caparbio ribellarsi alle decisioni arbitrali, nell’occhio di Faraut, non testimoniano sic et simpliciter un carattere vulcanico, indubbiamente presente, ma anche una volontà “super-umana” di controllare ogni aspetto della partita in corso, e quindi della sua vita.

Ne deriva un conflitto innato, probabilmente cicatrice di ogni sportivo sempre in bilico tra la vittoria e la sconfitta, ma in McEnroe pronunciato come e più dell’epica hollywoodiana. Benché, proprio sul finale, la musica ecceda un poco e cada nel tranello che tutto il film, col suo ritmo posato e geometrico, vorrebbe disinnescare, non c’è alcun bisogno di spettacolarizzare.

Nel tennista imperatore (o quasi) della perfezione vive un conflitto onesto, sincero, profondo e senza sconti. Perché, se il cinema mente, lo sport non è altrettanto generoso.