Sono passati dieci anni, ma non c’è ancora pace per la famiglia Lambert. La porta lasciata aperta dalla sensitiva Elisa non si è ancora richiusa. Dalton, intanto, non è più un bambino, ma un adolescente dalla lunga chioma e dallo sguardo enigmatico. Ora si è allontanato da mamma Renai e dal fratello adolescente per andare al college: è diventato un disegnatore e pittore prodigioso, visionario, ma anche pericoloso. Il rapporto, intanto, con papà Josh è ancora ai minimi termini, ma una connessione ubiqua e atemporale li tiene legati, connessi nell’inconscio, spaventosamente interdipendenti, sospesi tra la realtà e il sogno che si riversa, ora e sempre, nella realtà.

Dopo il successo di Insidious – L’ultima chiave, ecco il commiato della saga inaugurata da James Van nel 2010. Patrick Wilson per la prima volta si sdoppia, davanti e dietro la cinepresa, regista e protagonista (per la terza volta nel franchise: dopo il primo e il terzo capitolo), scommettendo sull’usato sicuro: connessioni vivi-morti in famiglia, paranormale e Altrove.

Scava a mani nude, il cineasta nella ciclicità ammiccante di temi, motivi e archetipi (l’Altrove del dittico iniziale, i demoni che aggrediscono come contatto con gli antenati, l’inconscio come prateria per incontrarli e risolvere i conti), nella ricorsività enigmatica dei personaggi (la sensitiva Lin) che hanno trascinato la storia per quasi cinque lustri.

L’impressione d’insieme è, però, che tra ritorno dell’identico, ammicchi alla fan zone e ossequio a temi e valori della tetrarchia, l’impresa sia riuscita a metà. Demonologia ed evocazione misterica latitano (più evocate che inscenate), sangue e lutti ancora meno (solo in apertura), le catene narrative si ripetono, i mostri sono familiari per tutti e quattro, e per questo, s’intuisce, addomesticabili.

Wilson, tra i salti di montaggio alternato, cerca il realismo onirico rivitalizzando l’immaginario, ma senza innovarlo: un familiare, anzi due (stavolta padre e figlio) colpiti da un demone che li calamita verso l’Altrove che è nient’altro che una manifestazione dei ripiani segreti della coscienza di ogni protagonista.

Più che il terrore, però, il notevole (a sprazzi) impianto fono-visivo cerca lo scavo nel passato e nella mente, per un film che sparge tanti dimensioni esistenziali quanti sono gli scaffali dell’inconscio dei due protagonisti. Il cammino di padre e figlio, allora, verso la liberazione, non è altro che una (l’ennesima) scorribanda furiosa nel regno del rimosso, del moralmente inaccettabile (Josh posseduto che aggredisce ex moglie e figli), dei traumi familiari, reiterato di generazione in generazione, di cattivo padre in figlio, alla ricerca di una liberazione definitiva.

Edipo e il paranormale. Le colpe dei padri e la famiglia da ricomporre. Visioni e ossessioni. I salti della memoria e quelli dell’inconscio. Wilson, per non deludere nessuno, non rischia granché, si guarda l’ombelico, si preoccupa che tutti i tasselli tornino a posto, riflette a lungo, prima di agire, così né Josh né Dalton finiscono mai veramente alle corde, mai in balia della tirannide dei demoni.

Di conseguenza, la carburazione è lenta, la concitazione di ritmo riesce a strappi, senza fluidità né potenza misterica, e sui titoli di coda rimane la netta sensazione di una chiusa non ispiratissima, di lignaggio inferiore ai precedenti perché troppo derivativa, troppo stantia, troppo poco pavida, insidiosa.