Da Robert Capa a Don McCullin, il fotoreporter di guerra è una figura che trasmette da sempre un fascino quasi leggendario, sin da quando il racconto in prima linea era alla stregua di una narrazione avventurosa e perfino esotica.

Fotografo dunque in un certo senso artista e al contempo giornalista che testimonia per immagini, sorta di eroe chiamato a rivelare l’inferno del conflitto, della devastazione, della morte a chi da lontano può solo immaginare.

In prima linea dà voce a tredici fotoreporter proprio per eludere la retorica superomistica, smitizzarne il portato epico e collocare questi uomini e queste donne in un orizzonte più realistico, magari anche rinunciando alla dimensione romantica.

Perché oltre agli scatti e alle visioni della professione, il documentario di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso fa affiorare le ferite indelebili che segnano i loro sguardi, così come la nostalgia di calarsi nel pericolo pur di consegnare al mondo un pezzo di realtà troppo indicibile per essere contenuta nelle sole parole.

Tredici fotoreporter sono tanti, a volte si accavallano l’uno sull’altro e non tutti incidono davvero, ma In prima linea ha il merito di costruire una specie di “personaggio unico” che si alimenta delle differenze del mestiere (date da elementi quali l’anagrafe, lo stile, la formazione, l’approccio) e riesce ad affrancarsi dall’iconografia enfatica.

 

Ne viene fuori una corale dove i silenzi dei protagonisti sono spesso più forti delle parole e riescono ad aprire varchi interessanti, ci intrigano le reticenze sul senso del limite e sui modi di accedere alla lettura del reale.

Più che sull’atto della fotografia inteso come capacità di catturare l’istante della morte in diretta appare più come un lavoro, In prima linea è un film sul conflitto interiore tra il dovere di testimoniare e il diritto di agire. Non a caso i fotoreporter sono ripresi principalmente all’interno di studi o ambienti domestici che sembrano ora gabbie temporanee ora ritiri dove riposarsi dopo aver visto troppo.