Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? La regista Maria Schrader risponde citando una famosa canzone di Leonard Cohen: I’m Your Man. “If you want a lover, I'll do anything you ask me to. And if you want another kind of love, I'll wear a mask for you”, suonava Cohen per raccontare di un partner che avrebbe fatto tutto quello che desiderava la sua donna. Gli intenti sono già chiari fin dal titolo, I’m Your Man appunto, in concorso al Festival di Berlino.

Il film è ambientato nella capitale tedesca e la protagonista è Alma, una scienziata che sceglie di prendere parte a un esperimento anomalo. L’obiettivo è vivere per tre settimane con un androide, che è stato progettato per essere il suo compagno dei sogni. La fantascienza si mescola con i toni della commedia romantica. Ma purtroppo Schrader non aggiunge nulla al genere, creando un ibrido che avrebbe avuto bisogno di un po’ d’inventiva.

Schrader è un’attrice di talento, che in molti si ricordano specialmente per Aimée & Jaguar di Max Färberböck. Non è la prima volta che passa dietro la macchina da presa. Aveva già diretto, tra le altre cose, la miniserie Unhortodox, disponibile su Netflix, con tono decisamente più ispirato. Il punto di vista era sempre femminile, si partiva da una ragazza il cui unico compito era quello di concepire figli. Poi lo spettro si allargava, e ogni episodio era la ricerca dell’identità di un popolo, nel punto di rottura fra tradizione e modernità.

In I’m Your Man le intenzioni cambiano radicalmente. Il tema è più leggero, invece di restare ancorati alla realtà si scelgono soluzioni oniriche. Nella sequenza iniziale Alma entra in una stanza piena di ologrammi, dove l’unico essere tangibile è il suo robot. I due si siedono, filosofeggiano, flirtano, e poi è tutto in discesa per il loro rapporto. La love story segue gli stereotipi del caso: la gelosia, l’incontro con i genitori di lei, le difficoltà della convivenza. Tutto prevedibile. Manca il guizzo che dia un po’ di colore alla vicenda.

Anche la sfumatura sci-fi perde presto la sua verve, e tutta la seconda parte gira a vuoto. Lui vuole scoprirsi umano e non fermarsi al mucchio di algoritmi che lo determinano. Lei cerca l’equilibrio tra passione e scienza, ma con scarsi risultati. Se siete appassionati di amori impossibili, recuperate il bellissimo Undine di Christian Petzold, che proprio l’anno scorso aveva illuminato la Berlinale. Mito, realtà, cinefilia e voglia di osare erano gli elementi che lo esaltavano. Mentre per I’m Your Man resta qualche sorriso, una notte al museo, e tante occasioni perse.