I'm Not There, Io non sono qui. Non c'è Bob Dylan nel film di Todd Haynes, non c'è perché non si tratta di un biopic musicale, bensì di suggestione poetica. E' una premessa necessaria per accostare criticamente, ovvero da spettatore, il quarto lungometraggio del regista californiano. Di Dylan non ci sono le canzoni più note, eccetto Like a Rolling Stone "confinata" a ridosso dei titoli di coda, appoggiata al primissimo piano, anzi particolare, del vero Bob Dylan con armonica a bocca, l'unico del film, da cui ci congeda per fare ritorno alle nostre rispettive enciclopedie musicali. Haynes di non-Dylan ne mette in scena sei: Woody (Guthrie), interpretato dal sorprendente giovanissimo Marcus Carl Franklin, afroamericano con chitarra, on the road su carri bestiame; il contestatore Arthur (Rimbaud), con il volto di Ben Whishaw; Jack (Rollins), interpretato da Christian Bale, che ha lasciato il palco per l'altare, dove lo troviamo pastore-cantante; Robbie (Heath Ledger), anni '70, denaro, successo e una moglie (Charlotte Gainsbourg) lasciata a se stessa; Jude, la folgorante, metamorfica Cate Blanchett da Coppa Volpi, in bianco e nero psichedelico; Billy, Richard Gere (uno e bino al Lido), Billy the Kid nella città di Enigma, fantasmagorica polis minacciata dall'autostrada della modernità e dimensione simbolica della non-raccontabilità di Dylan. Tutti simulacri, ovvero copie di un originale Dylan mai esistito nel film: sono sei personaggi in cerca d'autore, che non è appunto Bob il menestrello, ma Todd il regista. Lui sì che lo trovano, in una drammaturgia potente e variegata. Puzzle mai biografico, ma Gestalt poetica. Dylan non è qui. Ed è una fortuna. Per noi e per il film.