Imponente e prezioso il lavoro che Federico Ferrone e Michele Manzolini hanno fatto con Il treno va a Mosca. Come l'altro titolo italiano in concorso al Festival di Torino, La mafia uccide solo d'estate di Pif, anche qui assistiamo a un intelligente riuso del materiale d'archivio, con la differenza che stavolta i vecchi film costituiscono la quasi totalità delle immagini che vediamo. Non per questo abbiamo di fronte un documentario, volendo banalmente intenderlo come racconto obiettivo (?) della realtà attraverso le riprese dal vero. L'operazione è più complessa e appartiene al filone sempre più alla moda ed artisticamente fecondo del found-footage.
Recuperando, selezionando e ri-montando la mole di pellicole amatoriali conservati presso la Home Movies di Bologna (Archivio Nazionale del Film di Famiglia), in particolare gli 8 mm girati da un barbiere comunista di Alfonsine (Sauro Ravaglia), i due giovani filmaker con un lungo apprendistato in Al Jazeera, realizzano un'operazione che ha un triplice valore: documentale, etico ed estetico.
Hanno un grande significato testimoniale queste immagini strappate all'oblio del tempo, immagini inedite, private, perciò ancora più preziose, della semplicità, la gioia e gli entusiasmi che si respiravano nell'Italia della metà degli anni '50, soprattutto nei suoi paesini di provincia, non ancora deturpati dall'industrializzazione e la mitologia del benessere. In uno di questi, un picccolo centro nel ravvenate, Sauro e i suoi compagni (anche loro appassionati di 8 mm, anche loro dunque fonti del film) vivono la giovinezza con spensieratezza e allegria, condividendo il sogno della rivoluzione socialista. Sono gli anni di Togliatti e dell'ancora immacolata propaganda sovietica. Sono anni soprattutto di desideri, ardori, voglia di ripartire dalle macerie del dopoguerra. Il treno va a Mosca racconta sostanzialmente il viaggio che, nel '57, Sauro e la FGCI (Federazione Giovani Comunisti Italiani) intrapresero alla volta della capitale sovietica in occasione del Festival mondiale della Gioventù. Ci restituisce tutto il fascino che la città di Lenin e Stalin, la culla del comunismo, potevano ancora esercitare su uomini e donne ancora ignavi delle fregature della Storia. Commuove tanto la loro ingenuità quanto la loro passione, e ci toccano nel profondo quelle prime avvisaglie di disillusione che serpeggiano tra i giovani "turisti" italiani non appena sfuggono al controllo delle loro guide per andare ad esplorare i bordi invisibili di Mosca, là dove l'utopia inizia a colare come cerone dalle facce buie dei moscoviti che hanno già fiutato l'inganno.
Questa accorata, ambigua e non di rado sinistra, rievocazione dell'Utopia - cosa ben diversa dall'elogio - non si riduce mai a nostalgia canaglia di fronte a un qualunque cinegiornale di partito rivisto 50 anni dopo, ma diventa oggetto estetico grazie al costante dètournement delle immagini, allo scollamento dal loro significato originale. Una vera e proprio deflagrazione d'archivio e insieme una rinascita a mondo audiovisivo nuovo. Effetto del tempo, certo, ma anche e soprattutto conseguenza di una pratica discorsiva consapevole, d'avanguardia, debordiana, in cui ombre mosse, sfarfallii, evanescenze e iconografie promiscue ci restituiscono un'esperienza di visione straniante, mostrativa, attrattiva, percorribile soggettivamente, ovvero autonomamente rispetto al racconto "ufficiale". E' merito anche dello straordinario lavoro in montaggio di Sara Fgaier e quello sul sonoro di Francesco Serra, se Il treno va a Mosca si pone come uno dei rari esempi di documentario italiano underground, da contestualizzare all'interno di una Storia e di un Tempo precisi, ma da vivere come dentro uno stato d'ipnosi, tra visioni incerte e apparizioni fantasmatiche.