Le radici del cinema passano attraverso il tempo e lo spazio, due elementi fondamentali e semplici, che possono essere affrontati da tante angolazioni. Si parte da quanti secondi impiega un personaggio per attraversare una piazza, e si arriva a narrazioni scandite dalle lancette di un orologio appeso al muro, come in Stasera ho vinto anch’io di Robert Wise. Per Daniele Gaglianone la memoria è un tema ricorrente. Spesso si concentra sul rimosso.

Pensiamo a I nostri anni, in cui un ex partigiano è paralizzato su una sedia a rotelle, bloccato in una casa di riposo. Al bellissimo Rata Nece Biti (La guerra non ci sarà), dove un ventottenne serbo affronta la sua infanzia lacerante, passata sotto i bombardamenti. Uno dei personaggi spiegava: “La guerra è un problema che abbiamo dentro di noi”. Il conflitto per Gaglianone non appartiene solo alla Storia, ma è anche una condizione esistenziale, sempre legata al ricordo.

Il progetto nasce da un’idea del regista Andrea Segre, che fa parte del laboratorio culturale ZaLab. Si chiama Archivio 900, e vuole preservare l’essenza del secolo passato attraverso le testimonianze di chi lo ha vissuto, prima della rivoluzione tecnologica. Il tempo rimasto è figlio di quella intuizione. A mettersi a nudo davanti al pubblico sono gli anziani di oggi, che aprono le loro case, guardano fotografie, con la mente riavvolgono i decenni. Gaglianone è il traghettatore più sensibile verso le loro vite anonime, che hanno segnato il lato oscuro di un tempo che è stato anche il nostro o quello dei nostri padri.

Il film è un flusso di coscienza, un riandare con la memoria, in una composizione di primi piani di grande espressività. Prima vengono i sentimenti, le emozioni, poi l’immagine che li racchiude per trattenerli, per far sì che non si cancellino. Gaglianone si accosta con rispetto alle esperienze di chi è in là con gli anni. Ascolta, diventa a sua volta spettatore. Davanti a noi scorre una quotidianità antica, ma sempre centrale. La mente corre ai genitori, alla famiglia, ai luoghi che hanno caratterizzato l’infanzia. E poi arriva il peso degli avvenimenti: il fascismo, la guerra, la durezza dell’occupazione. Il tempo rimasto è un mosaico, un affresco corale, che punta a mantenere viva l’anima del nostro Paese. Ma non si tratta di un meccanico lavoro d’archivio. L’obiettivo è fare tesoro di ciò che è stato, perché ci insegni ad affrontare il futuro. Ed è qui che il progetto scopre la sua necessità.

 

Gaglianone non vuole invadere il campo, la macchina da presa è solo un mezzo per rendere eterni quei momenti raccontati. Non serve dimostrare, la forza della parola ha il suo peso insostituibile. Il tempo rimasto è un documento in cui si coglie lo scontro tra illusione e realtà, si assiste a sogni che si sono infranti, ma anche a speranze che si sono realizzate. E la tradizione orale si fa perno del racconto, come nella tradizione antica, mettendo in luce un’insostituibile sincerità. In alcune sequenze la cinepresa accarezza uno specchio d’acqua. Non vi sveleremo la circostanza, ma solo il significato. Tutto è fluido, impalpabile, ciclico. L’esistenza è figlia di continui movimenti, di cambi di direzione, alte e basse maree. E la sua magia, suggerisce Gaglianone, risiede nell’imprevedibile.