Il titolo è lo stesso di un film del 1968 diretto da Ugo Liberatore. Ma, a parte questo, null’altro hanno in comune. Trattandosi il primo di un dramma e quest’ultimo (in linea con la filmografia dell’attore e regista toscano) di una commedia sentimentale leggera.

Al solito Pieraccioni è un tuttofare: per cui lo dirige, lo scrive (in collaborazione con Filippo Bologna) e lo interpreta. Questa volta però non veste i soliti panni del latin lover. Scelta che deriva, come lui stesso ha confessato in conferenza stampa, dalla consapevolezza di non poter più riproporre i vecchi ruoli che lo hanno sì reso famoso, ma che non sente più nelle sue corde.

A ben guardare già lo aveva capito. E infatti, nel 2018, all’età di cinquant’anni, aveva deciso di concentrarsi sul rapporto di un padre con una figlia nella commedia Se son rose. Quattro anni dopo è un prete, ovvero Don Simone, che scopre di aver ereditato un bordello in Svizzera da suo zio (Massimo Ceccherini, che fa coppia fissa con Pieraccioni da oltre vent’anni).

Accompagnato dal suo fedele sacrestano Giacinto (Marcello Fonte) troverà l’affascinante direttrice Lena (Sabrina Ferilli, di sicuro la più carismatica del cast) che gli aprirà le porte della casa chiusa di Lugano e che gli farà incontrare tante ragazze che fanno il “mestiere più antico del mondo”.

L’abito talare e il barlume di umiltà del toscanaccio nazionale però non bastano. E per continuare il paragone con il suo ultimo film: se lì le rose non fiorivano, qui (questo è il suo quattordicesimo) gli angeli non volano.

Varia la trama, i tempi degli amori travolgenti (Il cicloneFuochi d’artificioIl pesce innamorato) sono lontani e anche quelli dei grandi successi, ma il modus operandi, basato sulla sua solita comicità toscana, non cambia. Una comicità, è vero, non volgare, anzi perfettamente allineata ai tempi del politically correct, ma che fa acqua da tutte le parti. Non solo non si ride, e già la cosa è grave. Ma, cosa ben peggiore, temi importanti che meriterebbero ben altro trattamento dal voto di castità dei sacerdoti alle case chiuse fino alla prostituzione non diventano per nulla argomenti per una critica di costume anche se leggera ed ironica. Anzi.

Il risultato è un film ipocrita, moralistico e soprattutto anacronistico. Non si va avanti, ma si va indietro. E allora viene una tremenda nostalgia per i vecchi cult della commedia all'italiana quando anziché usare termini come squillo, lucciole o messaline, Giannini apostrofava l’infida borghese Mariangela Melato come una “bottana industriale” (Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmuller): più scorretti, ma senza dubbio più veri, più divertenti e più critici.