Il casting per trovare l’attore di Tadzio nell’adattamento di Morte a Venezia di Thomas Mann fu talmente lungo e complesso che Luchino Visconti vi diresse anche un breve documentario, Alla ricerca di Tadzio, per l’appunto. Non era facile, d’altronde, trovare il ragazzo più bello del mondo in quello che sarebbe dovuto essere il trionfo estatico ed estatico di un’opera artistica giunta alla sua fase più crepuscolare e decadente.

Finché il principe della regia, “comunista con la servitù” come sentenziato con precisione e perfidia dalla voce narrante, s’imbatté in Björn Andrésen, quindicenne svedese dallo sguardo perturbante che sembrava nato per incarnare l’ossessione dell’anziano Gustav von Aschenbach.

Dato che l’identificazione del maestro con il protagonista non è un’ipotesi, la folgorazione è immediata e il provino è già la coreografia di un rapporto erotico con l’icona sognata: lo manovra convinto di dominarne il corpo, lo fa spogliare, lascia che i suoi occhi trasformino definitivamente Andrésen in Tadzio.

È già tutto qui il senso del documentario di Kristina Lindström e Kristian Petri, che dà voce a quel ragazzo ormai cresciuto e trasandato (barba e capelli lunghi, apparenza hippie, di recente l’abbiamo visto in Midsommar) e ai demoni che lo accompagnano da mezzo secolo. Tutta la prima parte de Il ragazzo più bello del mondo è un saggio straordinario su un certo modo di raccontare il cinema, i suoi retroscena visibili sotto i riflettori e i suoi misteri relegati fuori campo.

Bjorn Andresen. Copyright: MantarayFilm (2018)
Bjorn Andresen. Copyright: MantarayFilm (2018)
Bjorn Andresen. Copyright: MantarayFilm (2018)
Bjorn Andresen. Copyright: MantarayFilm (2018)

La rapida ascesa di Andrésen nell’immaginario è un esempio perfetto dell’oggettivizzazione dei corpi giovani, della manipolazione dei minori a uso e consumo del desiderio degli adulti, dell’abuso di potere oltreché fisico all’interno dell’industria cinematografica. Ridotto a opera d’arte vivente, muto come si conviene alle statue e sotto la tutela del regista che lo protegge dalla troupe, il ragazzo vive a sua volta nella realtà un Morte a Venezia parallelo, con l’anziano Visconti dedito alla celebrazione del giovane scelto per rappresentare la bellezza ideale.

La lettura veicolata dal documentario procede restituendo la voce all’oggetto del desiderio e accordandosi allo smarrimento di un ragazzo che solo col tempo ha compreso quanto l’esperienza con il regista – un divo per il mondo, per lui solo un elegante signore con un gran codazzo di amici – abbia segnato l’intero corso della sua vita.

Senza troppi giri di parole, Andrésen – che ha una storia familiare complicata: affidato all’ambiziosa nonna, è seguito da una governante e ha pochi punti di riferimento – rievoca la serata in cui fu portato da Visconti in un locale gay, luogo per lui inedito. La rivelazione è drammatica ancorché lacunosa: è il ricordo di un abuso, condizionato da un eccesso di alcolici dovuto alla paura, all’inconsapevolezza, al bisogno di estraniarsi da una situazione angosciante.

Luchino Visconti e Bjorn Andresen Shooting Morte a Venezia. Copyright: Mario Tursi (1970)
Luchino Visconti e Bjorn Andresen Shooting Morte a Venezia. Copyright: Mario Tursi (1970)
Luchino Visconti e Bjorn Andresen Shooting Morte a Venezia. Copyright: Mario Tursi (1970)
Luchino Visconti e Bjorn Andresen Shooting Morte a Venezia. Copyright: Mario Tursi (1970)

Tutto ciò che venne dopo il film è, se vogliamo, anche più curioso, sicuramente surreale. Perché, sulla scia del successo, Andrésen finì in Giappone, dove già popolare divenne una star musicale incidendo canzoni pop e fungendo da modello per gli anime (Lady Oscar si ispira al suo volto), e su set certo meno opulenti del kolossal di Visconti, fino a diventare accompagnatore di anziani signori.

Mettendo in scena il fantasma di una bellezza negata dalla natura e rinnegata dall’abitante di un corpo ingombrante, Il ragazzo più bello del mondo è l’anatomia di un’anima straziata alla continua ricerca di un posto nel mondo, la condivisione di un trauma personale che era paradossalmente così evidente sullo schermo da risultarci invisibile. Un film sul potere del cinema, tutto sommato.