Nel 1914, dopo aver visto I girasoli di Vincent van Gogh, Egon Schiele restò così suggestionato da realizzarne una versione personale: anziché appariscenti e rigogliosi, i suoi fiori sono appassiti e smorti, a testimoniare l’atmosfera tragica dell’incipiente Prima guerra mondiale. Creduta scomparsa dal 1939 e stimata da Christie’s tra i 4 e i 6 milioni di sterline, nel 2003 l’opera risbucò all’improvviso in una casa e venduta, due anni dopo, per 11,7 milioni di sterline. Tuttavia, in quanto saccheggiato dai nazisti, il dipinto doveva essere restituito allo Stato senza possibilità di lucro.

La faccenda legale è complessa ma è solo un pezzo, nemmeno il più determinante, nel film di Pascal Bonitzer, ispirato proprio a quella vicenda rocambolesca: Il quadro rubato, infatti, elude la cronaca (la casa d’aste diventa Scottie’s…) e sceglie un côté specificatamente francese, in bilico tra coscienza critica e ironia raffinata, individuando nel caso in sé una cartina di tornasole per scandagliare luci e ombre di un mondo che è a sua volta il riflesso di una nazione.

Al centro c’è un banditore immaginario (Alex Lutz, star transalpina), elegantemente stressato e sbevazzante, che scopre il mitologico quadro a casa di un giovane operaio: il ritrovamento potrebbe rappresentare l’apice della sua carriera, ma presto emergono dubbi, pressioni e pericoli legati alla provenienza del quadro. Ad aiutarlo l’ex moglie (Léa Drucker, solita sicurezza) e una stagista (Louise Chevillotte), mentre il mercato internazionale fa pressioni e i colleghi cercano di farlo fuori.

Autore di lungo corso, Bonitzer adotta il registro della sprezzatura per calarsi in un ambiente cinico e ipocrita, dove il lusso vale come qualifica e i rapporti umani sono appaltati a quelli commerciali. E non sfugge a una prospettiva morale – se non moralistica, magari moraleggiante – nel definire la superficialità di un sistema che non sa dare consistenza alla memoria, senso alle cose, significato alle immagini. Pur edificandosi in quell’opposizione tra rurale e metropolitano con tutti i rischi del caso, il focus è soprattutto sul mercato dell’arte e, va da sé, The Square è un modello evidente benché lontano, per arroganza intellettuale e capacità allegorica nonché diversa sensibilità nello sguardo.

Il problema risiede nel ritmo lasco e nel tono un po’ algido e così Il quadro rubato sembra uno di quei tanti vernissage più dispersivi che esclusivi, con opere interessanti ma superflue, cocktail mediocri versati in bei calici, chiacchiericci fatti di pigro namedropping e gossip di secondo livello.