“Un dio che può essere compreso non è un dio”. La citazione di William Somerset Maugham in esergo al film racchiude pienamente il senso dell’operazione compiuta da Matteo Rovere con Il primo re.

Ambizioso ben oltre le attuali possibilità del nostro cinema, realizzato con un budget di circa 9 milioni di euro in coproduzione con il Belgio, il film – superato l’impatto iniziale che rimanda inevitabilmente il pensiero a Grunt! di Andy Luotto e/o all’Attila flagello di Dio con Abatantuono & Co. – ci trasporta in territori non abituali, tenta la strada di una suggestiva e quanto mai ardita ibridazione tra l’estasi malickiana (La sottile linea rossa, The New World) e la macelleria gibsoniana (Apocalypto) per tornare alle origini del mito fondativo di Roma.

Due fratelli, Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi), prima travolti da una spaventosa esondazione del Tevere, poi catturati dai guerrieri di Alba Longa. Capaci di liberarsi dal giogo della morte (o della schiavitù) con un altro manipolo di prigionieri, portano via con loro il fuoco sacro protetto da una misteriosa vestale (Tania Garribba). Romolo è ferito, moribondo. Remo è disposto a qualsiasi cosa pur di proteggerlo.

Saranno proprio gli dei, attraverso gli aruspici, a mettere in discussione quel legame fraterno così inossidabile: sul sangue di uno dei due sorgerà il nuovo Impero.

Dopo l’ottimo Veloce come il vento, Matteo Rovere alza ulteriormente l’asticella: girato completamente in esterna (tra le varie location il parco dei Monti Simbruini, dei monti Lucretili, il monte Cavo, il monte Ceraso, poi la riserva di Decima Malafede e del Circeo, il lago dei Monaci e la Riserva di Tor Caldara) e in formato anamorfico, solamente con luci naturali (alla fotografia Daniele Ciprì), Il primo re è un lancio senza paracadute nel fango e nelle marrane dell’VIII secolo avanti Cristo: l’unico volto noto è quello di Alessandro Borghi (chiamato ad un’altra prova di resistenza fisica dopo Sulla mia pelle), i pochi dialoghi sono recitati in protolatino, la volontà è quella di tornare alle viscere di un conflitto, tremendamente umano e ancora oggi attuale, quello tra il libero arbitrio e la sottomissione al volere del destino.

 

Quattordici mesi di postproduzione, una prima parte di grande respiro e campi lunghi, poi una progressiva chiusura nell’inospitale foresta dove ad emergere sarà la figura di Remo, sfidato, temuto infine scelto dal gruppo come leader carismatico di una rivolta che a breve assumerà i connotati dell’impresa.

Ma superstizioni ferine e vaticini di fede iniziano a minare l’unione tra i due fratelli, con Remo deciso a far prevalere il proprio amore, le proprie convinzioni, il proprio individualismo, a discapito del fato e della collettività.

Sfiorando solamente la “coattaggine” di prodotti mainstream come 300 ma lontano dall’epica nichilista di capolavori come Valhalla Rising, il film di Rovere si concede qualche riferimento pop (la vestale ricorda vagamente la Sacerdotessa Rossa del Trono di Spade) e qualche drone di troppo, non regge per intero le proprie ambizioni (poteva durare qualche minuto in meno) e fugge troppo presto dalla mischia di combattimenti cruenti che invece avrebbero potuto regalare ancora qualcosa in più in termini di spettacolo.

Ma resta comunque un tentativo, quello di Rovere, che seppur vinto solamente in parte, deve essere difeso e sostenuto. Perché il cinema italiano ha bisogno di prodotti di questo tipo, dove il coraggio della realizzazione si fonde con il talento dell’artigianato puro. Un cinema che non ha paura di sprofondare nelle fangosità di territori apparentemente sconosciuti, arcaici e ostili. Per riemergere e sferrare il proprio sorprendente attacco dinnanzi agli sguardi, attoniti, di un pubblico abituato alle solite commedie. O ai soliti “autori”.