L’operazione era spericolata: adattare un fortunato testo teatrale per il grande schermo, dare diritto di cittadinanza cinematografica a un personaggio televisivo, offrire un ruolo importante a un attore esperto ma ultimamente fin troppo istrionico. C’erano tutti, i presupposti per un “flirting with disaster”, eppure Il più bel secolo della mia vita funziona e, nel suo passo prima impacciato e poi sciolto, somiglia ai suoi due protagonisti: sta in piedi, nonostante il timore ora buffo ora malinconico covato dal rigido e verticalissimo Giovanni; e fila via, un po’ sfrontato e mai del tutto dritto, come Gustavo Diotallevi, che in piedi non ci può più stare ma seduto ne combina più del diavolo.

Perché solo un (povero) diavolo può permettersi di usare – e profanare, suo malgrado – un enorme crocifisso per giocare a pallone, trasformandolo in palo e spettatore. Lo conosciamo bambino, Gustavo, nel lungo flashback iniziale in un bianco e nero che ammicca ad atmosfere neorealiste, figlio di nessuno cresciuto dalle monache: anche per questo quel gesto inconsulto sembra ancora più dirompente (in una stagione in cui il crocifisso ha già avuto un ruolo importante, pensiamo a Rapito di Marco Bellocchio), rischiando perfino di dirottare la commedia altrove, verso lidi più grotteschi e sopra le righe.

Sergio Castellitto in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED
Sergio Castellitto in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED

Sergio Castellitto in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED 

Suggestione che riaffiora nei titoli di testa che qualcosa devono a quelli di Pasqualino Settebellezze, con i pezzi d’archivio a costruire il racconto di un’Italia a cavallo tra guerra e boom economico, tra immagini di gioie effimere e collettive e Brunori Sas a raccontarci la vita com’è. E il rischio si corre anche all’apparizione di Gustavo ormai centenario che, a sottolineare la circolarità, è ancora accudito da una suora severa. Per fortuna Sergio Castellitto è in partita: il trucco che lo invecchia di una trentina d’anni non è né posticcio né inverosimile, il lavoro sulla voce cavernosa è intelligente, l’intesa con i partner risente del consumato mestiere di interprete carismatico.

E, per fortuna, nonostante le premesse, Il più bel secolo della mia vita è un (mezzo) road movie che trova una strada grazie alla chimica tra Castellitto e Valerio Lundini, tra i massimi umoristi della sua generazione, al primo ruolo da protagonista. Lundini fa Lundini: non solo perché i tic, l’intonazione, il passo, gli imbarazzi, i disagi sono gli stessi della sua maschera, ma anche perché al suo disadattato dona una dimensione ideale da “absolute beginner” in cui convergono attore e personaggio.

Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED
Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED

Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED 

Prodotto da Gabriele Mainetti (“produttore artistico”) per Goon Films e Andrea Occhipinti, Mattia Guerra e Stefano Massenzi per Lucky Red, l’esordio di Alessandro Bardani (co-autore della commedia all’origine con Luigi Di Capua, interpretata in teatro da Giorgio Colangeli e Francesco Montanari; alla sceneggiatura sono accreditati anche Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli) parte da un’assurda legge che impedisce ai figli non riconosciuti alla nascita di conoscere l’identità dei genitori biologici prima del compimento del suo centesimo anno di età. Per riuscire ad attirare l’opinione pubblica, Giovanni, membro dell’associazione dei figli adottati, cerca la complicità di Gustavo, unico centenario non riconosciuto alla nascita in vita, il solo che avrebbe il diritto di avvalersi di quella normativa ma che sembra non aver alcun interesse a farlo.

Sergio Castellitto e Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED
Sergio Castellitto e Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED

Sergio Castellitto e Valerio Lundini in Il più bel secolo della mia vita © LUCKY RED 

Lo spunto è originale, il ritmo gira dopo un po’ di rodaggio, il tono è gentile ma non mellifluo, le risate non mancano pur senza farsi sguaiate, la malinconia qua e là fa capolino evitando l’angoscia. Attorno ai due uomini, la sempre luminosa Carla Signoris sempre più quintessenza di una maternità calda e anticonvenzionale e un fugace cameo di Sandra Milo che apre mondi mettendo insieme tutti i domani passati. Un po’ Up e un po’ Nebraska, al crocevia tra evocazioni indie e tradizione italiana, è la storia dell’incontro tra un ragazzo ferito a morte che schiva la vita e di un uomo baciato dalla vita che sfida la morte. Saggiamente dura il giusto e il finale, tenero e giusto, è una carezza.