There Will Be Blood recita il titolo originale de Il petroliere, ritorno al cinema di Paul Thomas Anderson, regista e sceneggiatore (ispirato a Oil! di Upton Sinclair), e Daniel Day-Lewis, attore protagonista. Otto statuette potenziali agli Academy Awards, in concorso al festival di Berlino, premi (Golden Globe per Day-Lewis) e premietti rastrellati in giro per il mondo, Il petroliere ha fatto gridare al miracolo la critica, pron(t)a a salutarlo come il film dell'anno, il ruolo del millennio, masterpiece, astonishing, e via dicendo. Ebbene, non è così. Il sangue scorre infine, ma i 159 minuti sono a rischio trombosi. Se Rapacità, Il gigante, e tutti gli altri termini di paragone - anche Nosferatu, esplicitamente con il lungo e adunco Day-Lewis à la Max  Schreck di fronte al pozzo in fiamme - sono criticamente leciti, viceversa la sensazione è che Anderson abbia tentato la strada di un nuovo Quarto potere, cercando la consacrazione autoriale. Non vi è riuscito, e dovrebbe essere superfluo dichiararlo. In primis, ad Anderson manca continuità poetico-formale: se Il petroliere vorrebbe farsi - se non essere a priori - classico, al suo regista manca l'autorialità nell'accezione classica, ovvero la padronanza di una poetica e di uno stile. Slittamento temporale del setting del Petroliere a parte, da Sidney fin qui quale può essere considerato il Leitmotiv forma-contenuto di Anderson? Stilisticamente non lo rintracciamo, e dal punto di vista poetico forse l'unico fil rouge è il suo moralismo, da fustigatore delle pubbliche, ovvero privatissime, turpitudini degli Stati Uniti. Ritornando all'analogia con Quarto potere, l'insidiosissimo moralismo su grande schermo è tollerabile - in sparuti casi efficace - solo quando è modulato, ovvero distillato col contagocce: l'egocentrico Welles da regista e interprete seppe farlo, dirigendosi con sconcertante misura, Anderson fallisce lascandosi prendere la - e per - mano da Day-Lewis, con una progressione enfatica e iperbolica che leva respiro epico alle inquadrature in (s)favore di un'asfissia da one man show. In breve, c'è troppo Day-Lewis nel film, anzi il film è troppo Daniel Day-Lewis. Proprio la direzione d'attori, meglio d'attore, è l'unico passo a ritroso qualitativamente compiuto da Anderson nel suo corpus filmografico: se in Magnolia - pur sopravvalutato - aveva gestito con maestria l'ensemble d'attori, regalando a Cruise una delle sue prove migliori, qui finisce per essere succube del suo protagonista, permettendogli di divenire non il petroliere ma Il petroliere. All'epilogo emorragico, viscoso e grondante, ancorché tronfio, si giunge per accumulo, affastellamento di azioni, reazioni, presenze, estroversioni, soggiogamenti e accaparramenti di Day-Lewis. Non troppo dissimile l'utilizzo dello score di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead. Anche qui la "materia prima" è ottima, ma quasi sciagurato l'uso che Anderson ne fa: se il cinema classico cui aspira richiede il contrappunto, questo non comporta musicalmente iterazione, intensificazione, sottolineatura e, indi, occlusione del canale uditivo per due ore e 40 minuti. Troppo. Che rimane? Un buon film, e un ottimo patricidio, quello di Day-Lewis nei confronti del Petroliere. Si potrebbe parlare, e a lungo, dei rimandi all'attualità (il pastore Paul Dano, nemesi di Day-Lewis, archetipo dei predicatori fanatici e fatui - soprattutto televisivi - dell'odierna Bible Belt...), del contemporaneo smarrimento identitario degli States, della Nascita di un nazione nel sangue, della proprietà privata, del libero arbitrio, della concezione demiurgica del film, della Wille zur Macht di Anderson e del petroliere, del rapporto padre-figlio, e via dicendo. Ma concludiamo citando Calvino, che nelle Lezioni americane elogiava la leggerezza contro: "la pesantezza, l'inerzia e l'opacità del mondo, qualità che s'attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle". Qualcuno non l'ha letto...