Due anni dopo Una separazione arriva inevitabile il divorzio. Asghar Farhadi ha realizzato una specie di sequel del film della consacrazione (Orso d'oro e Oscar), già nel gioco di rimandi narrativi: se nell'opera precedente alla base della rottura di coppia c'era la volontà della donna di lasciare l'Iran, qui la protagonista (Bérénice Bejo, migliore attrice all'ultimo festival di Cannes) si trova all'estero - il film è ambientato in una Parigi assai poco riconoscibile - mentre a tornare dall'Iran è lui, Ahmad (Ali Mosaffa), pronto a firmare le carte per il divorzio e a lasciarsi bene con la ex moglie Marie. Una formalità. Ma come accade sempre nel cinema di Farhadi le cose si complicano quasi immediatamente per via dei non detti, le piccole menzogne, gli equivoci, i sospetti: Marie convince Ahmad a dormire a casa anziché portarlo in albergo (come lui avrebbe voluto), ben sapendo che lì vivono, oltre alle due figlie avute da un matrimonio precedente, il nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim), e suo figlio. Di entrambi Ahmad era ignaro, nonostante Marie insista nel dire il contrario. Comprensibile il disagio di Ahmed per la situazione. Ma può andare peggio. La figlia maggiore di Marie, Lucie, è in guerra con la madre perché non vede di buon occhio la relazione con Samir, e Ahmad - considerati i buono rapporti mantenuti con la figliastra - è chiamato, pregato da Marie, a intercedere. Scopre allora che la forte contrarietà di Lucie nasconde un motivo: l'attuale moglie di Samir, in coma da mesi in un letto d'ospedale, avrebbe tentato il suicidio una volta saputa della tresca tra il marito e Marie.

Fosse stato girato in Iran Le passé - quarto film in concorso a Cannes - avrebbe inevitabilmente giustificato letture politico-sociali su una società sospesa tra vecchie rotture che non si riescono a sanare e nuovi patti e unioni che si faticano a stringere. Ma siamo in Francia e alle prese con i più banali cortocircuiti relazionali, il che spiega perché Le passé possa sembrare un passo indietro rispetto a Una separazione. Non ha quel respiro, quell'elasticità simbolica. Non regala nemmeno la stessa tensione psicologica e quel climax emotivo che avevano fatto la fortuna invece del film precedente.

Tuttavia Le passè è tout court un film di Farhadi. Ne conferma la precisione nella scrittura, l'abilità nel costruire personaggi ad alto tasso d'empatia, la sagacia nell'addensare attorno a un nucleo primario - lo potremmo chiamare: l'evidenza di un fatto - nuove e ulteriori rivelazioni che, anziché chiarire, annebbiano il giudizio, sfumano i contorni delle cose, contraddicono verità prima accertate.

Questo onnipresente motivo pirandelliano si sposa a una messa in scena rigorosa, costruita sul conflitto tra primi piani, la continua reversibilità delle soggettive e l'attrazione per le superfici divisorie e riflettenti (porte a vetro scorrevoli, finestre, porte). La suspense non decolla come altre volte, ma il film resta pervaso da un presentimento angoscioso, il sentimento molle di un'imminente sciagura. E cresce alla distanza, regalandoci uno dei più bei finali visti fin qui. Un finale alla Farhadi.